Emilio Isgrò (classe 1937, provincia di Messina ) è noto come l'artista della "cancellatura", è anche scrittore, giornalista, poeta e saggista italiano. Sono gli anni sessanta, Emilio Isgrò attraverso il suo linguaggio, fatto di parole cancellate, inizia a sperimentare e a produrre opere d'arte. Grazie al suo lavoro si trasferisce a Milano, ma fra il 1960 – 1967 si reca a Venezia chiamato dal Gazzettino per curarne le pagine culturali. Il soggiorno veneziano come giornalista gli permette di avvicinarsi, conosce e frequenta Aldo Palazzeschi, Eugenio Montale, i Emilio Vedova, Virgilio Guidi, Giuseppe Santomaso, Ezra Pound e la giovane Peggy Guggenheim. Nel 1964 realizza la prima cancellatura dichiarando atttraverso scritti e saggi che “la parola è morta", da qui le prime mostre e la sua consacrazione artistica. Ringrazio il maestro per avermi concesso quest'intervista davvero interessante.
Gentile Maestro Isgrò, facendo un salto
indietro nel tempo, quando il percorso l'ha portata ad essere artista? Lei
inizia come giornalista, l'arte arriva successivamente. Com'è avvenuto?
Più che come giornalista, ho
cominciato come poeta. Ho iniziato con un mio libro di poesie pubblicato da
Arturo Schwarz, mio futuro primo mercante.
Il salto è avvenuto come
avvenivano i salti al tempo delle avanguardie: il desiderio di non lasciare le
sedie sempre allo stesso posto. Così io, che partivo dalla scrittura
letteraria, a un certo punto mi sono domandato se la poesia dovesse essere
l’arte della parola, così come i musicisti si erano chiesti legittimamente se
la musica dovesse essere veramente l’arte dei suoni. E in quell’ottica di
rinnovamento, innescata dalle avanguardie, mi sono permesso, con baldanza
giovanile, di definire la poesia non più un’arte della parola, come avevano
fatto i poeti concreti, ma un’arte generale del segno. Da qui è venuta la mia poesia
visiva e successivamente l'arte concettuale.
La "cancellatura" è sinonimo dei
suoi lavori, cosa significa per Lei? Come sceglie i testi su cui intervenire?
A volte li scelgo dopo una lunga
riflessione oppure per caso. A volte mi vengono commissionati da altri o consigliati,
ma in effetti non cambia nulla.
A volte sono il frutto di una
necessità interiore: è chiaro che se voglio parlare della vecchiaia scelgo il De Senectute di Seneca, mentre per la
gioventù Il giovane Holden, o
qualcosa del genere.
In un periodo della sua vita ha vissuto a
Venezia: cosa le ha lasciato la città lagunare? Nel suo soggiorno incontrò
Peggy Guggenheim: cosa ricorda dei suoi incontri con lei?
La città di Venezia sembra
apparentemente avermi lasciato poco, ma così non è. Colgo solo adesso la sua
formidabile eredità. Vivevo lì, ma frequentavo Andrea Zanzotto e i grandi
intellettuali veneti di quel periodo e gli artisti veneziani, tra i quali il
musicista Luigi Nono e l’artista Emilio Vedova. A vent’anni cercavo di fare qualcosa
che andasse di là della loro idea di avanguardia, ma la mia reattività era certamente
dovuta alla loro presenza. Imparai molto.
Di Peggy Guggenheim, che mi
chiese un’intervista da curatore delle pagine culturali del Gazzettino, ho un ricordo di una signora
americana estremamente sicura di sé, per non usare un aggettivo più secco che non
sarebbe appropriato per una donna che tanti meriti ha acquisito come
collezionista.
In alcune sue opere troviamo invasioni di
formiche che creano immagini e si interfacciano con le parole. Che significato
hanno e cosa rappresentano?
Le formiche sono delle
cancellature mobili, poiché coprono la scrittura e la rendono illeggibile. E
sono, inoltre, un elemento di naturalità che va ad affiancarsi alla cultura. Se
c’è una cosa che mi ha sempre turbato del mio lavoro e anche di quello di altri
artisti concettuali è il rischio di gelo e sterilità. Un elemento di naturalità
e di possibilità di apertura, come quello che dànno le api e le formiche, a me
ha da sempre giovato.
Se dovesse scegliere un’opera che
contraddistingue il suo lavoro, quale sceglierebbe?
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