Chi è Andrea Mastrovito? qual'è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
Chi sono? Dimmelo tu, Andrea, io non lo so. Posso però dirti come è cominciato tutto. Artista lo diventai per scommessa, un pomeriggio di quasi vent'anni
fa, mi ritrovai in un parcheggio fuori da scuola col mio migliore
amico, Zizi. Avevamo terminato gli esami di maturità da meno di
mezz'ora, ci siamo guardati e ci siamo detti: cosa facciamo
adesso? Lui amava il cinema, io il calcio e l'arte. Siccome però come
calciatore facevo schifo (sigh), optai per l'arte e dissi a Zizi: se io
faccio l'Accademia di Belle Arti, tu fai Lettere indirizzo Cinema, così
poi da grandi ci troveremo e faremo un film
assieme. Ecco io sto ancora aspettando che Zizi dia l'ultimo esame di latino II...
I tuoi progetti spaziano da scultura ad installazione a pittura,
come nascono i tuoi lavori? tu vivi e lavori fra Bergamo e NewYork,
queste due città giocano un ruolo nelle tue opere?
Sì queste due città mi nutrono, una mi ha cresciuto, l'altra mi ha svezzato. Entrambe mi hanno insegnato a prendere sia dall'alto che dal basso,
senza distinzione (non a caso a Bergamo c'è Città Alta e Città Alta e a
New York Uptown e Downtown!), e quando le fonti si sovrappongono è più
facile che anche i linguaggi si incrocino
e diventino un tutt'uno, un corpus unico dove pittura scultura e
installazione dialogano senza soluzione di continuità. Ma il punto di
partenza è, essenzialmente, sempre il disegno e lo studio del segno,
difatti quando dipingo disegno, quando installo disegno,
quando uso la scultura, disegno.
Nel 2014 al Gamec, nello spazio Zero hai creado un progetto site
specific, "at the end of the line", mi puoi raccontare in cosa
consisteva?
Un lavoro folle, come spesso del resto, in cui ho pensato di
realizzare un'opera d'arte totale, quasi wagneriana nella sua ambizione,
in cui ho parlato della morte dei singoli parlando poi della vita di
ognuno. Ho girato decine di cimiteri nel Nord Italia
e nello stato di New York, realizzando frottages di decine e decine di
tombe, a volte sdraiato sulle stesse, a volte persino finendoci dentro o
scappando a gambe levate al buio e ai fulmini. Alla fine, sul pavimento
dello Spazio Zero, ho disposto cento frottage
di tombe di persone che avevano vissuto da 0 a 100 anni, scelte fra
sepolture che andavano dal primo secolo d.C. ad oggi. Disposte in terra
come il Gioco della Campana (o del Mondo) e coperte con decine di
pannelli di plexiglass, costituivano un grande cammino
attraverso il tempo e lo spazio, la vita e la morte, verso il muro dove
un disegno murale di 60 mq nascondeva una serie di sorprese. Una mostra che mi è costata molta fatica, ma mi ha dato grande
gioia, soprattutto perchè dopo tanti anni ho potuto esporre un gran
lavoro nella mia città.
Ad Artverona sono rimasto colpito dalla sue scultura Dreams 2,
quatro statue classiche in cemento di cui una distrutta collocate girate
con una serigrafia sulla schiena, come nasce l'opera e con essa cosa
voi trasmettere?
In realtà non si tratta di serigrafia ma di disegno a matita.
L'opera fa parte di un corpus più grande, composto da cinque gruppi
scultorei ed otto collages che ho presentato lo scorso febbraio al Museo
Andersen nella personale "Here the dreamers sleep".
Sostanzialmente (sarò breve perchè la questione è lunga) si tratta di
una serie di lavori sulla caduta dei sogni e delle utopie, laddove
l'idea di rivoluzione rappresenta qualcosa di folle (e magari
irrealizzabile) in cui credere, mentre l'idea di utopia viene
letta come un imborghesimento del processo rivoluzionario, qualcosa in
cui, invece che credere, sperare. E si sa, chi visse sperando, morì c.......!
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