Chi è Eugenio Tibaldi e qual'è il percorso che ti ha portato a definirti artista?
Sono nato ad Alba nel 77 ed ho fatto un percorso particolare che non mi ha definito in alcun modo nè dal punto di vista accademico nè dal punto di vista pratico... per cui non so dire se sono un artista. So che oggi il mondo dell'arte è il luogo in cui riesco ad esprimermi meglio.
La tua ricerca artistica parte dai luoghi periferici e attraverso differenti mezzi espressivi prende forma. Mi puoi parlare di essa, di come scegli il luogo e di come ti rapporti con esso?
Mi sono trasferito nell'hinterland Napoletano nel 2000 ed è stata una vera scoperta, la zona d'ombra al di fuori dei centri storici italiani è un luogo che mi ha attratto fin da subito, con la sua crudeltà pratica ed informale mi sembra il luogo più plastico e contemporaneo che abbiamo nel mondo. Le periferie sono spesso le fucine delle nuove forme estetiche e per me è proprio grazie alla mancanze di tutele dettate dall'amore e dalla storicizzazione che nei luoghi periferici si può pensare e generare una possibile nuova forma estetica.
Mi sono trasferito nell'hinterland Napoletano nel 2000 ed è stata una vera scoperta, la zona d'ombra al di fuori dei centri storici italiani è un luogo che mi ha attratto fin da subito, con la sua crudeltà pratica ed informale mi sembra il luogo più plastico e contemporaneo che abbiamo nel mondo. Le periferie sono spesso le fucine delle nuove forme estetiche e per me è proprio grazie alla mancanze di tutele dettate dall'amore e dalla storicizzazione che nei luoghi periferici si può pensare e generare una possibile nuova forma estetica.
La periferia prima di essere un luogo fisico è una condizione mentale, la mia condizione mentale, essere leggermente defilato rispetto al punto in cui mirano i riflettori mi permette una maggiore libertà di azione di espressione, dimensionare la contemporaneità attraverso questi luoghi e le tracce che lasciano mi dà l'impressione di cogliere l'essenza prima di ogni strumentalizzazione, prima di ogni consacrazione.
Hai vissuto per alcuni anni a Napoli e a questa città hai dedicato la tua mostra al MADRE dando vita ad una serie di arazzi attraverso cinque raggruppamenti da 24'000 immagini prodotte in collaborazione con un gruppo di studenti delle scuole superiori. Quasi li sono i temi affrontati con questo progetto e il ruolo del capoluogo partenopeo?
Questione d'appartenenza è solo l'ultima in ordine cronologico di molte ricerche che ho dedicato a Napoli ed al suo hinterland. Napoli è la mia città, la città che ho scelto per formarmi come essere umano, la città che mi ha fornito le armi per decifrare le dinamiche che incontro in ogni altra parte del mondo, una sorta di luogo d'elezione a cui sono legatissimo. È inoltre una delle pochissime città italiane in cui il centro e la periferia non sono disposte in modo canonico in base alla distanza da un'ipotetico centro pulsante, Napoli conserva delle sacche di resistenza civile nel cuore della città, sacche che la mantengono viva ed eclettica. Per questo progetto ho vissuto un'anno ai quartieri spagnoli, a 100 metri dalla celebre piazza del Plebiscito e a 100 metri da una piazza di spaccio.
Ho cercato così le tracce di questo dinamismo sociale attraverso le architetture, cercando le micro azioni informali svolte dai singoli cittadini sulle facciate dei palazzi storici, inserendomi nella scia di Walter Benjamin che teorizzò per Napoli l'idea della città porosa, un luogo unico in grado di cambiare ed aumentare gli spazi riconvertendo gli anfratti della sua stessa struttura, tradendo e deturpando la sua stessa bellezza, sporcandola di una nuova bellezza più viva ed unica che strafottente ride dei continui rintocchi che ne prevedono la morte.
A seguito della permanenza concordata con il museo Ettore Fico hai presentato la tua personale come un percorso attraverso oggetti, fatti e persone rivolto al cambiamento. Mi puoi parlare di Seconda Chance?
Seconda Chance è una mostra che si muove su diversi registri, il primo che va a parlare di questo momento storico in cui i quartieri funzionali delle città si trovano defraudati delle loro istanze ed obbligati a riconvertirsi nell'era post industriale (il museo stesso insiste in una ex fabbrica), il secondo parla dell'essere umano che nel percorso della sua vita si trova a dover affrontare la necessità di rimodulare il progetto e ridefinire la rotta quindi a doversi confrontare con il tradimento delle sue aspettative per potersi dare una seconda possibilità. Il terzo ed ultimo invece è più personale, da piemontese emigrato a Napoli rappresenta una sorta di ritorno ai luoghi d'origine, ai luoghi da cui sono andato via perché non mi sentivo compreso e che invece ero io a non comprendere, quindi alla mia seconda chance per cercare un punto di comunione.
Si tratta di un progetto cominciato quasi due anni fa in costante dialogo con il direttore del museo Ettore Fico e curatore della mostra Andrea Busto che ha visto un lavoro di ricerca sul quartiere di Barriera di Milano come modello su cui ragionare su questo particolare momento storico che vede i quartieri post industriali a dover ridisegnare il loro tessuto fisico e sociale. Una sorta di romanzo visivo che prova a raccontare il cambiamento nel momento in cui avviene.
Hai vissuto per alcuni anni a Napoli e a questa città hai dedicato la tua mostra al MADRE dando vita ad una serie di arazzi attraverso cinque raggruppamenti da 24'000 immagini prodotte in collaborazione con un gruppo di studenti delle scuole superiori. Quasi li sono i temi affrontati con questo progetto e il ruolo del capoluogo partenopeo?
Questione d'appartenenza è solo l'ultima in ordine cronologico di molte ricerche che ho dedicato a Napoli ed al suo hinterland. Napoli è la mia città, la città che ho scelto per formarmi come essere umano, la città che mi ha fornito le armi per decifrare le dinamiche che incontro in ogni altra parte del mondo, una sorta di luogo d'elezione a cui sono legatissimo. È inoltre una delle pochissime città italiane in cui il centro e la periferia non sono disposte in modo canonico in base alla distanza da un'ipotetico centro pulsante, Napoli conserva delle sacche di resistenza civile nel cuore della città, sacche che la mantengono viva ed eclettica. Per questo progetto ho vissuto un'anno ai quartieri spagnoli, a 100 metri dalla celebre piazza del Plebiscito e a 100 metri da una piazza di spaccio.
Ho cercato così le tracce di questo dinamismo sociale attraverso le architetture, cercando le micro azioni informali svolte dai singoli cittadini sulle facciate dei palazzi storici, inserendomi nella scia di Walter Benjamin che teorizzò per Napoli l'idea della città porosa, un luogo unico in grado di cambiare ed aumentare gli spazi riconvertendo gli anfratti della sua stessa struttura, tradendo e deturpando la sua stessa bellezza, sporcandola di una nuova bellezza più viva ed unica che strafottente ride dei continui rintocchi che ne prevedono la morte.
A seguito della permanenza concordata con il museo Ettore Fico hai presentato la tua personale come un percorso attraverso oggetti, fatti e persone rivolto al cambiamento. Mi puoi parlare di Seconda Chance?
Seconda Chance è una mostra che si muove su diversi registri, il primo che va a parlare di questo momento storico in cui i quartieri funzionali delle città si trovano defraudati delle loro istanze ed obbligati a riconvertirsi nell'era post industriale (il museo stesso insiste in una ex fabbrica), il secondo parla dell'essere umano che nel percorso della sua vita si trova a dover affrontare la necessità di rimodulare il progetto e ridefinire la rotta quindi a doversi confrontare con il tradimento delle sue aspettative per potersi dare una seconda possibilità. Il terzo ed ultimo invece è più personale, da piemontese emigrato a Napoli rappresenta una sorta di ritorno ai luoghi d'origine, ai luoghi da cui sono andato via perché non mi sentivo compreso e che invece ero io a non comprendere, quindi alla mia seconda chance per cercare un punto di comunione.
Si tratta di un progetto cominciato quasi due anni fa in costante dialogo con il direttore del museo Ettore Fico e curatore della mostra Andrea Busto che ha visto un lavoro di ricerca sul quartiere di Barriera di Milano come modello su cui ragionare su questo particolare momento storico che vede i quartieri post industriali a dover ridisegnare il loro tessuto fisico e sociale. Una sorta di romanzo visivo che prova a raccontare il cambiamento nel momento in cui avviene.
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