lunedì 27 marzo 2017

Interview with Irene Fenara

Irene Fenara, classe 1990, è giovane artista italiana che utilizza differenti mezzi espressi per dare vita ai suoi progetti; la fotografia in particolar modo contraddistingue i suoi ultimi progetti nei quali indaga le differenti relazione e le percezioni umane in differenti campi. La sua opera "Ho preso le distanze" è presente nella mostra "Give me yesterday" presso l'Osservatorio della Fondazione Prada.




Chi è Irene Fenara e qual'è il percorso che ti ha portato a diventare artista?

Sono un’artista bolognese, città dove lavoro e ho studiato all’Accademia di Belle Arti.
Credo che l’arte non sia nemmeno una vera scelta, è quella cosa che non puoi smettere di fare, una necessità. È approcciarsi alle cose del mondo con attenzione alle differenze. È resistenza. È la non accettazione di ciò che è preimpostato, dei preconcetti. Assolutamente importanti sono stati e sono gli incontri speciali, la convinzione forte nelle proprie idee e una certa dose di fortuna.

Il tuo processo creativo si avvale di differenti mezzi e supporti, in particolar modo la fotografia svolge un ruolo chiave ed è ricorrente all'interno dei tuoi lavori, ma credo che definirti fotografa sia riduttivo dato che utilizzi differenti supporti. Cosa caratterizza i tuoi lavori e come nascono?
In passato pensavo che l’utilizzo di tanti mezzi differenti fosse un problema, finche non ho capito che si tratta, in realtà, di una forma di libertà e che ciò che accomunava i vari lavori era un certo tipo di sensibilità nello sguardo, che poi veniva inevitabilmente restituita anche nelle forme. Mi piace pensare che sia l’idea a determinare il mezzo, anche se ultimamente utilizzo quasi solamente fotografia e video. Quello che vorrei fare è stimolare un senso di meraviglia, mettendo in discussione ciò che è dato per scontato, a partire dall’atto di visione. La visione è una costruzione culturale che si costruisce e si impara, sempre più velocemente nella circolazione e saturazione di immagini della nostra epoca. La storia della visione si lega inevitabilmente alle tecnologie ottiche e visuali che si innestano sui nostri occhi e ne trasformano la capacità di vedere e quindi anche di pensare. Anche se la visualizzazione della vita quotidiana non determina necessariamente la comprensione di quello che vediamo. Nel tempo ho sentito, quindi, la necessità di appropriarmi degli strumenti della contemporaneità, dei dispositivi della visione e delle tecnologie che orientano e determinano il nostro modo di vedere, arrivando anche ad utilizzare le immagini provenienti da videocamere di sorveglianza. Uno strumento non è mai sola tecnologia ma rappresenta la visione stessa, un modo di pensare il visibile.
D’altra parte invece, la fotografia per me, è sempre stata prima oggetto che immagine. Mi ha sempre affascinato la fotografia come scultura, per questo ho lavorato tanto con la Polaroid, la cui specificità oggi non sta più nell’essere istantanea, dal momento che abbiamo un’infinità di device che lo permettono, ma nell’essere oggettuale. Mi interessa indagare la fotografia attraverso i limiti delle tecnologie di acquisizione di immagini, dalla Polaroid allo scanner, per esempio.
Nelle video installazioni come nella pratica fotografica il mio interesse è sempre incentrato sull’idea di movimento nello spazio e nel tempo e la conseguente necessità di orientamento. Per questo utilizzo immagini in movimento, o che portano le tracce di un movimento, e che ribaltano i punti di vista o generano situazioni di disorientamento spaziale. Utilizzo il disorientamento come un modo per strappare la familiarità da ciò che vediamo, per rivedere nuovamente da un’angolazione, anche leggermente, differente. Sono, forse, tentativi di sfuggire ai regimi scopici.

“Se il cielo fugge” è il tuo progetto presentato per Adiacenze, un progetto site-specific che cambia la percezione dello spazio attraverso un processo di fusione. Crei un dialogo che viene ad instaurarsi fra gli elementi, lo spettatore e l'opera, a cosa punta? Come si colloca questo lavoro all'interno del tuo percorso?
Il progetto è nato osservando lo spazio vuoto, Se il cielo fugge è stata la mostra di inaugurazione del nuovo spazio espositivo di Adiacenze, in cui era già quasi del tutto scomparsa la vecchia identità del luogo ma non era ancora connotato da quelle che sono le varie suddivisioni e funzioni della galleria. Mi sono permessa di impossessarmi di tutto lo spazio che si sviluppa su tre sale, una dopo l’altra, una dentro l’altra, in fila. Partire da un vuoto è sempre un nuovo inizio. Trovo importante la sensazione di vuoto come punto di quiete, nella sua accezione più positiva come punto di partenza in cui tutto può ancora accadere e che a volte provoca un’angoscia simile alla sensazione d’instabilità e disorientamento della vertigine. Quello che ho fatto è stato modificare lo spazio reale con l’applicazione di grandi fotografie alle pareti divisorie e l’inserimento di video su monitor (entrambi sottosopra), per poi fare delle riprese nello spazio modificato da riproiettare sulla parete di fondo. Il video è una lunga zoomata che attraversa tutto lo spazio, che inizia con la ripresa della ripresa di un orizzonte marino. La ripresa passa ben presto da un ambiente apparentemente esterno, il mare in un monitor, a un interno, lo spazio espositivo. La grande proiezione è stata a sua volta ribaltata, facendo risultare lo spazio apparentemente normale, per poi accorgersi soltanto alla fine del corto circuito provocato dal doppio ribaltamento. È proprio nel momento in cui lo spettatore, dopo aver visto il video, si gira per tornare indietro che vede le fotografie alle pareti e realizza che quello che ha guardato in video è lo spazio stesso in cui si trova, un po’ come avviene per la funzione fisiologica dell’occhio che introietta immagini ribaltate che il cervello raddrizza. Le stanze in fila, separate da piccoli muri divisori, permettono la visione a distanza della parete dell’ultima stanza, in una prospettiva orizzontale. Mi interessa lavorare sull’idea che lo sguardo è sempre un atto prospettico con un punto di vista concreto, nello spazio e nel tempo, che dispone gli oggetti nel campo visivo, anche a seconda del dispositivo tecnologico che ne inquadra la visione. La prospettiva intesa come dispositivo, come apparato che concorre a disporre un’immagine nello spazio, interno ed esterno ai suoi margini, e che organizza il rapporto con l’osservatore di cui configura lo sguardo. La visione contraria e sottosopra confonde le coordinate, il punto di vista è rovesciato e mette in discussione i punti di orientamento spaziale e i punti di riferimento. Tutte queste sensazioni, a mio parere, rimettono in discussione l’idea di rappresentazione di mondo.

Alla mostra "Give me yesterday", a cura di Francesco Zanot alla Fondazione Prada Osservatorio, troviamo una tua opera esposta "Ho preso le distanze", composta da un insieme di polaroide affiancate ed esposte in quattro livelli . Mi puoi parlare di questo lavoro? Come nasce e qual’è il messaggio?
Ho preso le distanze è un lavoro emotivo che si costruisce su basi scientifiche. Il progetto nasce e si sviluppa a partire dagli studi antropologici di Edward T. Hall sulla prossemica, che analizza quelle che sono le distanze che l’uomo si da nella comunicazione e nei suoi rapporti con gli altri all’interno della società, ed esprime queste distanze con misurazioni piuttosto accurate e precise. Quello che mi ha subito colpito è la possibilità di poter determinare i rapporti e gli affetti tramite un metodo “scientifico”, ovvero, in base a misurazioni con numeri e centimetri. Infatti, nel saggio di Hall sono elencate tutta una serie di classificazioni molto precise, come ad esempio la fascia che va da 0 cm a 45 cm viene considerata una distanza intima, mentre da 45 cm a 120 cm si tratta di distanza personale e così via. Trovo interessante la decifrazione di qualcosa di così astratto come l’amore, gli affetti e le amicizie attraverso un criterio molto preciso come la misurazione dello spazio. Questa traduzione dal piano astratto a quello logico ci costringe a rileggere le esperienze quotidiane sotto una luce nuova, con un occhio più osservatore e consapevole, scopriamo che comunichiamo anche quando non parliamo e che il nostro stare nello spazio crea significato. Ho deciso di sperimentare questo metodo sulla mia esperienza, fotografando amici, parenti e conoscenti in maniera istintiva, per poi, solo dopo aver scattato la foto prendere le misure con un metro. Ho preso come base del mio progetto la prossemica occidentale perché la distanza alla quale ci si sente a proprio agio con le altre persone vicine dipende anche dalla propria cultura, per esempio gli arabi preferiscono stare molto vicini tra loro, quasi gomito a gomito, mentre gli europei e gli asiatici si tengono fuori dal raggio di azione di un braccio. Ho utilizzato come supporto la Polaroid perché mi permetteva di creare dei documenti su cui poter anche scrivere, dato il carattere oggettuale del mezzo. Ho registrato tutte le distanze, le date e gli orari e ho riportato sulla fotografia questi dati con l’uso del normografo, uno strumento simile a un righello usato per la scrittura di caratteri uniformi. Tutti questi dati raccolti mi hanno permesso di creare, in occasione della mostra Give me yesterday, un'installazione su quattro livelli leggibile come se fosse un piano cartesiano in cui l’andamento orizzontale rappresenta lo spazio, le distanze quindi, posizionando le fotografie dalla più lontana alla più vicina, mentre le verticali descrivono il tempo, le fotografie sono installate dalla più vecchia alla più recente, attraversando i cinque mesi della durata del progetto, e il susseguirsi delle varie stagioni, che si manifesta nella colorazione delle varie fotografie. Questa installazione permette di una vera e propria lettura a più livelli dei vari aspetti che determinano il lavoro. Trovo, inoltre, molto interessante l’impossibilità di fissare i rapporti emotivi e il carattere volutamente fallimentare nel cercare di mappare e definire gli affetti, si tratta di un progetto che è fortemente legato a una temporalità precisa. Le relazioni, infatti, mutano nel tempo e a distanza di anni, ora, è tutto diverso.

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