Chi è Marinella Senatore e qual'è il percorso che ti ha protata a diventare artista?
Il mio percorso è molto diversificato, innanzitutto ho studiato arte. Ho due lauree in arte, una in Italia e una in Spagna dove sto completando il dottorato e dove ho insegnato per quasi sette anni in due diverse università. Allo stesso tempo la mia formazione è stata la musica classica, studiavo al conservatorio e ho lavorato come violinista per diversi anni. Successivamente sono andata a Roma a vivere e sono entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia. La mia esperienza viene da sistemi di creazione corale, condivisa come l’orchestra e il cinema. Infatti ci sono moltissime persone ognuno con la propria peculiarità, il proprio ruolo, il proprio sentimento, tutti lavoriamo per la stessa causa, per raccontare la stessa storia, quella scritta nella sceneggiatura, quindi non a caso ho tratto queste esperienze di coralità. Mi occupo di didattica in due università spagnole, prima come professore full-time e ora come visiting professor perché la professione di artista mi occupa molte ore, è una cosa che mi piace moltissimo. Credo molto nella didattica occidentale, è questa la ragione per cui ho fondato la mia di scuola, The School of narrative dance, scuola nomade itinerante. Ho voluto sempre portare quest’esperienza di didattica anche nelle università. Ho avuto e ho ancora modo di confrontarmi con i ragazzi, la lezione di Jacques Rancière il maestro ignorante e lo studente emancipato andato oltre i limite del maestro cominci ad introdurre quello che può andare oltre l’insegnamento dell’insegnante è una cosa in cui io credo totalmente.
Le tue performance sono caratterizzate da un aspetto partecipativo, come avviene questo processo? Come definiresti i tuoi lavoro e la tua selezione con essi?
Io lavora anche con la performance ma non solo, sono una di quegli artisti multimedia, che lavora con i video, i film, i collage moltissimo, il disegno che è alla base di tutto di qualsiasi lavoro io faccia, l’installazione e sicuramente anche performance. Il mio lavoro con le performance però è declinato in due linee, che sono i miei due progetto fondamentali. Uno è la School of narrative dance, dove si lavora sul corpo e sui gesti, il corpo come story-teller, uno strumento per raccontare e narrare. La school of narrative dance è completamente dedicata al corpo e alla narrazione attraverso di esso, si parte dai testi scritti collaborativamente con i partecipanti e la produzione in movimento, la narrazione è il focus, non il gesto atletico della danza, non forniamo danzatori non abbiamo alcun interesse a farlo. La schol of dance è un progetto didattico che si basa sulla gestualità totale della didattica dove il ruolo dello studente e del docente è molto sfumato ed è sempre una performance in forma di parata o processione. Un opera come emancipazione delle dignità della persona e della costrizione di una comunità temporanea e quindi la parata/processione è la forma che si prestano perfettamente. Ho lavorato molto sulla forma della parate e della processione partecipative, performative, con la danza di comunità, di emancipazione me anche solo con il mettere insieme tante persone con il concetto di assemblea dentro alla tematica performativa. Un'altra linea di lavoro che riguarda le performance e non solo è Protest forms, memory and celebration è legata alle forme di protesta attraverso al danza e la musica, la voce, quindi anche i teatri ambulanti/itineranti, non di tipo classico ma quel operaio-contadino. Quindi io posso dire che il vero anello di congiunzione di tutto il mio lavoro è il fatto che io lavori sulle strutture sociali con un approccio partecipativo di impeachment sociale rivolto all’emancipazione. I gesti di protesta hanno ispirato la coreografia e la coreografia è ispirata al gesti di protesta. Il folk, che mi interessa molto, e il canto popolare sono molto importanti per me. In questi ambiti produco performance.
La costruzione delle tue opere è cruciale, la pre-fase del lavoro, come anche la post-produzione risultano centrali, come avvengono?
La pre-fase, tutto il processo del lavoro, inizia con una prima fase di ricerca, una mappatura dei luoghi, dei tessuti sociali inizialmente, perché la storia è sui libri e ci si può informare quindi inizio dal farmi raccontare la comunità dalle comunità, quindi si parte con il tentare di impiegare energie locali, quindi non un team di persone che vengono da fuori ma che sono del luogo anche nella fase di ricerca e di preparazione. Si mappano le associazioni, si intervistano, dove ci sono le associazioni, ci sono anche luoghi in cui non c’è associazionismo ma è più rarefatto. Devo dire che nella maggior parte dei casi, i gruppo esistenti, le associazioni come le scuola gli operai, i disoccupati, chi lavora nelle strutture sociali, nelle strutture di educazione sono sicuramente grandi fonti.
Quello che faccio anche quando creiamo dei film, dei video collettivi è che la sceneggiatura è affidata a centinaia di persone che decidono per sperimentarsi in questo, è una sfida anche con loro stessi, per sentirsi importanti per quello che hanno da dire, raccontare e anche prendere delle sfide con mondi differenti che non hanno mai provato prima. Come quello della danza, della scenografia o della musica perché è la stessa metodologia basata sui workshop, incontri sullo studio delle persone delle comunità, perché quello che io aborro è l’arte pubblica che impiega la forza lavoro della persone ma che in realtà sta soltanto rendendo reali le idee e progetti che sono nella testa dell’artista. In dialogo con la comunità, con le persone, quello che noi facciamo è assieme, è un lungo percorso con le persone, di relazione, di parlare con i possibili partecipanti, ragionare , che il progetto di appartenenza che non sia abusivo con idee altrui ma collettivo. Come un orchestra, un paragone efficace. Anche con masse enorme di persone, ho lavora con oltre cinque milioni di persone fino ad oggi, numeri enormi che non sono l’obbiettivo. Nessuno si stente usato. Anche i non addetti ai lavori, come il pubblico, i partecipanti, non gli interessano le cose dove non vedono un interesse per loro stessi, il senso di condivisione di coesistenza sono i punti fondamentali socio-politici in questo momento. Bisogna discutere, stare insieme, come ovviamente non lo risolviamo con un progetto artistico ma anche solo per un tempo breve questa coesistenze esiste, questa temporanea comunità dentro varie comunità si forma, progetti con anche miriadi di persone coinvolte. Persone con background, culture, provenienze e lingue diverse, figuriamoci da creatività e disegni diverse. Orchestrare tutto questo è il mio compito, che tutto questo sia emancipativo, il mio ruolo è essere un attivatore. Con questo parlare, incontrare, farsi raccontare, iniziano a formarsi le idee di possibili formati di cosa possa essere utile in quel posto. Se può essere la school of narrative dance, si chiede alle persone di cos’anno bisogno di che piattaforma perchè il mio lavoro comprende worshop, incontri, un opera lirica o qualunque altra cosa, ogni lingueggio è interessante.
La post produzione è solamente il mettere insieme l’esperienza. Il file oltre all’editiring ha anche una parte di mettere assieme tutto quello che io ho avuto il privilegio di vedere, perchè i partecipanti vedono una parte del progetto e non l’interessa. Poi c’è tutto il lavoro grafico, gestuale, condiviso e mio individuale dei disegni, realizzare delle opere grafiche, installativi, durante, prima e dopo il progetto partecipativo non è un esigenza commerciale perchè lavoro con delle gallerie, ma è parte del progetto. Chi vive il progetto lo capisce, perché è il mio modo di organizzarlo anche mentalmente, scrivo molto meno rispetto a quello che leggo ma disegno molto di più, per me è cruciale, senza questa parte non esisterebbe il resto. Sono miglioni di persone, milioni di vite, di storie renderle con il linguaggio più consono ovvero il video la fotografia e soprattutto il disegno e la pittura, tutte le opere grafiche ad esempio il collage che è più vicino ai miei primi periodi.
A Venezia nella cornice di Piazza San Marco hai orchestrato la performance We The Kids progetto patrocinato con Collezione Peggy Guggenheim e OVS, mi puoi raccontare in cosa consiste il lavoro? We The Kids è un progetto intero orchestrato da Peggy Guggenheim e OVS, il mio contributo è stato pensare a qualcosa che potesse essere fatto anche dalla distanza perchè hanno partecipato oltre due milioni di bambini, se aggiungiamo la famiglia oltre cinque milioni di essere umani, ottomila scuola, 61 mila classi, su tuto il territorio italiano. Non era possibile incontrare tutte le scuole, ne ho incontrate molte però. È il primo progetto, nella mia carriera, che ho dovuto pensare a dei materiali che potessero essere utilizzati, un punto di partenza per creare delle cose molto peculiari e specifiche. Assolutamente entusiasmante come esperienza. Ho progettato un lavoro che fosse assieme alla Shool of narrative dance e quindi che lavorasse sul corpo e attraverso dei tutorial grafici spiegasse la coreografia in tutti i modi, il movimento del corpo, potessero essere per la prima volta un nuovo scenario per i ragazzi. È stata scelta la forma del flashmobe per cui ho incontrato oltre mille bambini in piazza San Marco dove è stata realizzata la coreografia con l’aiuto delle coreografe Elisa Zucchetti e Nandhan Molinaro. Abbiamo concepito gli esercizi, degli stimoli. Anche persone con disabilità ad usare il corpo e ad essere in comunità erano parte con gli altri ragazzi. Allo stesso tempo in cui noi lo facevamo in tutte le altre scuole, nelle numerose città italiane, realizzavano le coreografie con le dovute variabili che avevano deciso di dare i maestre e ragazzi. Ogni gruppo ha dato un titolo alla coreografia, ogni classe uno differente alla propria performance. Una storia, di cui non abbiamo possesso ma che era il nostro desiderio di emancipazione ed andare oltre i limiti di nuovi attivatori ed è questo che hanno fatto i ragazzi. È stato un progetto meraviglioso.
Per Manifesta 12 hai presentato il progetto Palermo Procession, come nasce l'idea e come si colloca all'interno della Biennale Europea nomade?
Sono stata invitata dalla curatrice Mirjam Varadinis con la quale avevo già avuto occasione di lavorare a Zurigo e condividiamo molte idee soprattutto rispetto al senso socio-polito che molti lavori possono avere e di comunità. Ho presentato un installazione multimediale in cui ci sono dei monitor nella chiesa SS. Euno e Giuliano un lavoro performativo, una project room quando è stata fatta la performance come processione con tutti i dettagli. Con un cammino, delle stazioni dove fermarci, un percorso lungo che attraversava luoghi inaspettati di Palermo. Iniziava da dai quatto canti ma arrivava al foro italico. Per preparare questo ci sono stati mese di lavoro di conoscenza del territorio, persone, di individui, di passaparola che in molti paresi funziona molto bene. Abbiamo iniziato a comporre una sorta di sinfonia della città, non andando contro il teatro coreografico della città ma abbracciandolo. In questa project room ci sono oltre 150 ritratti dei partecipanti, che sono almeno il doppio, questi sono quelli che potevano essere ritratte perchè molti non potevano per motivi religiosi o personali, anche questo è stato un momento molto forte, d’intesa fra me e loro, di disegnarli. Abbiamo lavorato con gruppi molto eterogenei, dai docenti del centro diurno di salute mentale, ad un gruppo di non vendenti, di teatro di sordi, ragazzi con la passione per la danza, del nuoto sincronizzato venuti da Modica, ragazzi di un liceo musicale con cui lavoro spesso, un eccellenza, delle danzatrici, la banda di Palermo, cantanti d’opera, attivisti che lavorano per l’emancipazione della donna, contro la tratta degli schiavi in nigeriani, differenti associazioni. Tantissimi esempi virtuosi e significativi per il tessuto palermitano, molto eterogeneo ma virtuoso, per quanto riguarda il teatro e la musica abbiamo trovato delle eccellenze uniche. Ho lavorato con tantissimi gruppi di persone, oltre ventitré ormai. Oltre al ritratto della chiesa che era la nostra base ci sono installate delle bandiere sviluppate con associazioni e sartorie sociali che puntano al reinserimento nel lavoro in maniera onesta che insegna a cucire, poi con un gruppo di attiviste che hanno un associazione nel quartiere ZEN, partiamo di un quartiere molto critico che stanno portando avanti un lavoro con le donne che hanno realizzato dei workshop con la mia coreografia che hanno realizzato delle bambole. Sempre nello spazio espositivo ci sono anche dei monitor che narrano alcuni dei workshop che abbiamo realizzato, sia per la recitazione che per la danza, delle prove che abbiamo tenuto, delle realtà completamente dissonanti che hanno creato una sinfonia stupenda. Per tuta Manifesta sarà visibile il film della performance. Ovviamente parlando di coltivare la coesistenza niente di più che mettere assieme tutte le energie, di una citta che ha tantissimo, dove tutte le realtà di vario genere, giovani meno giovani, persone con difficoltà, tutti hanno accettato la sfida e si sono incontrati per la prima volta il girono della performance. Due gruppi hanno utilizzato i pali della questura della citta per ballare, una performance ulteriore nella città. Sempre legato all’emancipazione, al creare comunità, a coltivare la coesistenza che è difficile ma che poi è diventata fortissima. Le performance doveva durare due ore ma alla fine ne è durata quasi quattro, perchè il pubblico si è sentito chiamato in causa e quindi sono entrati nella coreografia, nelle performance e hanno sconvolto in modo positivo la scaletta, il time line dietro ad ogni processione per i partecipanti e per il percorso. La performance e l’installazione hanno avuto un gran successo, è stato un lavoro faticoso, lavorando con differenti genti, molto complesso. È una delle cose più forti che io abbia mai fatto e sento di essermi affezionata in modo particolare, perché c’era qualcosa di profondamente vero e condiviso e forse per questo ha avuto questo impatto su tutti.
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