Pietro Ballero, classe 1992, è un artista italiano che vive e lavora a Torino. La sua ricerca è caratterizzata da un'ironia nostalgica che si presenta nei differenti approcci e linguaggi che l'artista usa. I lavori innescano meccanismi narrativi vicini allo spettatore attraverso una dinamica caratterizzata dall'accumulazione e dalla collezione. Di seguito l'intervista con Pietro sui suoi ultimi lavori.
Chi è Pietro Ballero e qual è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
Quando ero piccolino sapevo benissimo cosa sarei diventato da grande: un giorno ero convinto che il mio futuro si sarebbe svolto nello spazio, o forse che mi sarei accontentato di arrivare sulla luna; il mese successivo mi sentivo un vero talento come pirata, in giro per i mari, a cercare tesori nascosti sulle isole sperdute in oceani lontani... Poi c’è stato il periodo in cui avrei voluto fare il pompiere e un’altra volta l'esploratore. Siccome non avevo nessuna intenzione di rinunciare a nemmeno una di queste professioni, ho pensato bene di rimboccarmi le maniche e provare a fare l'artista.
Dopo aver frequentato un anno presso l'École supérieure des arts Saint Luc di Liège, in Belgio, mi sono diplomato in Decorazione all'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. A seguito di un'esperienza presso l'École Supérieure des Beaux Arts di Parigi mi sono laureato presso il corso magistrale di Arti Visive e Moda dello IUAV di Venezia. A Venezia ho avuto anche la fortuna di vivere, quotidianamente e per ben 173 giorni, un luogo denso come quello della Biennale, lavorando per il progetto Studio-Venezia di Xavier Veilhan. Ora sono tornato a vivere a Torino dove ho casa e studio.
I tuoi lavori dialogano con i momenti ricorrenti, ordinari e speciali, di ognuno di noi, ma anche ciò che ci circonda influenzandoci indirettamente. Un tocco malinconico caratterizza la tua visione. Cosa caratterizza la tua ricerca?
Attualmente la mia ricerca è concentrata sul tentativo di innescare meccanismi in grado di evocare una narrazione del presente attraverso il linguaggio conosciuto di un passato prossimo a noi tutti più familiare, forse è per questo che dai miei lavori emerge un leggero senso di malinconia. Cartoline turistiche, oggi non più troppo utilizzate ma bene impresse nella nostra memoria, diventano il medium per raccontare un tragico evento attraverso i commenti estrapolati dalla rete; delle candeline di compleanno colorate si trasformano nel numero di like che riceve una foto sui social o scontrini accartocciati diventano lo strumento per scrivere un diario della mia vita... Il tentativo è dunque una traduzione linguistica di ciò che apparentemente è ordinario in straordinario.
Nel contesto di una comunità dominata dalle dinamiche di un tardo capitalismo che ormai investe la dimensione ontologica delle persone, la mia pratica si serve sopratutto dell'accumulazione e della collezione. Credo negli oggetti, o meglio (per dirla alla Bodei) nelle “cose”, quali risultato di un'economia delle relazioni: nella maniera in cui una persona seleziona e successivamente dispone le “cose” nello spazio, queste possono diventare un'espressione esteriore dell'individualità, contribuendo così alla produzione di realtà.
THANK YOU, COME AGAIN! è il tuo progetto su Instagram che ripercorre il tuo anno precedente attraverso gli scontrini che hai ricevuto. Mi racconti cosa lo caratteristica e come si sta svolgendo?
Parafrasando l'antropologo del consumo Daniel Miller, in un mondo orfano delle grandi narrazioni, le persone si sentono chiamate a costruire orizzonti di significato a partire dalla scelta, dalla disposizione, dalla conservazione di oggetti “densi”, che rimandano con la loro tangibilità, a esperienze e incontri.
Dal 1 gennaio fino al 31 dicembre del 2018 ho conservato, collezionato ed accumulato tutti gli scontrini di cui sono entrato in possesso a seguito di un mio consumo.
Apparentemente un semplice pezzetto di carta, lo scontrino ha una diffusione estremamente capillare e registra precisamente l’orario e la posizione delle nostre spese; indica cosa stavamo consumando in un dato momento e ne quantifica il costo. Nella società dei consumi di cui facciamo parte, se venissero conservati tutti gli scontrini di un individuo si potrebbe disegnare una mappa geografica e cronologica dei suoi spostamenti, oltre che testimoniarne le attività, le abitudini e poterne persino tracciare un profilo psicologico. Allo stesso tempo conservare un determinato scontrino è un gesto abbastanza comune che permette di ricordare una specifica esperienza assumendo così il valore di ricordo, di memoria.
Il materiale raccolto diventa dunque capace di attivare un procedimento di emersione della memoria attraverso ciò che io, come individuo, ho consumato. Esattamente come molti dei nostri ricordi vengono affidati ai post su Facebook, Instagram o altri social network, vorrei provare ad affidare allo scontrino il ruolo di una memoria oggettiva delle esperienze dell’anno trascorso. Da un lato lo scontrino si porrà come testimone perfetto, fornendo dati precisi e impeccabili, dall’altro però non sarà in grado di trasmettere nulla che possa riguardare la sfera emotiva legata alla mia memoria.
Da inizio gennaio di quest’anno ho cominciato ad attivare il lavoro sul mio profilo Instagram (https://www.instagram.com/pietro_ballero/). Una scansione di ciascuno scontrino collezionato viene pubblicata sul social network all'ora esatta e nel giorno corrispondente della stampa dello scontrino stesso, ma con un anno di distanza. Ad ogni post pubblicato su Instagram corrisponde un geotag che indica il luogo dov’è stato battuto lo scontrino ed una descrizione testuale in cui sono riportate tutte le informazioni sensibili tratte dallo scontrino corrispondente.
L’intenzione è dunque quella di rendere il mio profilo Instagram un diario effettivo di tutti i miei consumi, ma che si pone in maniera diacronica rispetto ad un normale utilizzo del social network.
Ciao, siamo umani strani è il tuo lavoro realizzato insieme a Teresa Satta; come nasce questo lavoro a quattro mani e cosa rappresenta?
Il lavoro nasce dall'invito di Pietro Consolandi, Bianca Schröder e Matteo Binci a partecipare alla seconda edizione del Traffic – Festival delle anime gentili, meraviglioso progetto espositivo tenuto a San Lorenzo in Campo, un piccolo paesino nel cuore delle Marche.
Un po' per metterci alla prova e un po' per la collocazione geografica del festival così particolare, volevamo provare a pensare ad un lavoro che coinvolgesse, almeno in parte, la comunità locale. Siccome timidezza e insicurezza spesso mi mettono fuori gioco, un lavoro a quattro mani si presentava come la scelta ideale. Teresa, oltre che un'importante amicizia, è un'artista davvero sensibile e con un profondo approccio relazionale.
Entrambi affascinati dai panni stesi, abbiamo deciso di lavorare sul proverbio italiano "i panni sporchi si lavano in casa”. In poche parole è un proverbio che sostiene che i problemi di natura familiare debbano essere risolti all'interno della famiglia evitando di coinvolgere il mondo esterno. Questo proverbio non mi fa impazzire, perché per quanto mi riguarda il bucato per asciugare ha bisogno di essere steso all'aria aperta e necessita del profumo del sole, dello sguardo curioso dell'altro!
Ecco, dunque partendo dall'idea di voler portare quelle che sono le problematiche quotidiane di ognuno ad un livello collettivo e condivisibile, il progetto si propone di relazionarsi con il concetto di "casa" e di "abitare" sfidando il luogo comune che ci insegna a non manifestare le crisi e le debolezze al di fuori delle mura familiari, pur di mantenere un certo decoro di facciata.
Volevamo riunire in un punto del paese i panni della comunità (lenzuola, tovaglie, tende, copridivano) come emblema dell'intimità domestica, riportando su questi la planimetria interna delle case in cui i panni hanno assistito silenziosi alle storie di ognuno.
In estate siamo partiti per una breve residenza presso San Lorenzo in Campo, con l'obbiettivo di raccogliere panni e storie attraverso l'incontro personale con la comunità locale.
Abbiamo conosciuto una realtà completamente diversa da quella che viviamo noi, abituati a grandi centri urbani, e siamo rimasti davvero sorpresi dall'accoglienza che ci è stata riservata.
Abbiamo in seguito tracciato sui panni le planimetrie di alcune case del paese, disegnate però da chi le ha vissute come amico e invitato, da persone dunque esterne al nucleo domestico, sottolineando le differenze percettive tra chi vive uno spazio nella sua quotidianità e chi in esso è ospitato. I disegni, ottenuti durante i nostri incontri con gli abitanti del paese, cercano dunque di raccontare la relazione tra chi è ospitato e chi ospita: sale da pranzo o salotti ingrandite dal cibo condiviso e dal tempo trascorso assieme, corridoi d’entrata allungati dai saluti e dagli abbracci entrando e uscendo dalla casa, camere da letto assenti o rimpicciolite, caratterizzate dal segreto dell’intimità dello spazio personale dedicato alla notte.
Il lavoro si è concretizzato in un'installazione presso l'antico lavatoio del paese, in cui i panni sporchi per secoli sono stati lavati alla luce del sole in mezzo allo scorrere della vita.
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