Giulio Zanet, classe 1984, è pittore italiana la cui estetica è caratterizzata dall'uso del colore. La rappresentazione della dualità di ciò che ci circonda caratterizza i lavori, presentati in differenti supporti e materiali, dell'artista piemontese che oggi vive e lavora a Milano. Di seguito l'intervista con l'artista.
Giulio Zanet è una persona di 35 anni che ha eletto la pittura come mezzo per conoscere e imparare a stare al mondo. Vengo da un piccolo paese di provincia, ai piedi delle montagne, in Piemonte.
In casa probabilmente ho sempre respirato un po' di aria artistica. Quando ero piccolo mia mamma suonava il pianoforte e il mio papà dipingeva. Poi negli anni hanno smesso entrambi, forse assorbiti da noi figli o dalle necessità della vita. Da adolescente la prima forma espressiva che ho avvicinato è stata la musica; ho provato a imparare a suonare la chitarra, suonavo con gli amici e dopo poco ho capito che non era il mio. Dopo di chè ho provato con la scrittura, mi cimentavo a scrivere racconti con l'ambizione di diventare uno scrittore, ma anche li dopo poco tempo ho capito che non era affar mio. Poi è arrivata la pittura. Ed è scoppiato l'amore. E non ho più smesso. Mi divertivo e mi riusciva abbastanza bene per cui ho continuato a farlo. Finito il liceo ho deciso di fare l'Accademia di Belle Arti, mi sono trasferito a Milano e sono salito a cavallo della giostra. Ho cominciato a fare mostre, qualche residenza, stringere una rete di conoscenze legate a questo mondo; mano a mano ho preso sempre più coscienza che questo era ed è quello che voglio fare e quindi nonostante le mille difficoltà continuo a provare a farlo.
La tua ricerca è caratterizzata dal colore, tele di grandi dimensioni dove prendono forma i soggetti attraverso una sovrapposizione di livelli. Mi racconti cosa caratterizza la tua ricerca?
Io intendo la pittura come un modo di stare al mondo e un mezzo grazie al quale conoscerlo, capirlo. Negli anni la mia ricerca si è spinta sempre più verso il tentativo di annullare qualsiasi forma riconoscibile a favore della superficie pittorica. Il racconto, se esiste, si svolge tutto lì.
La ricerca è focalizzata sulla pittura e sulla sua dimensione, che di conseguenza si lega alla percezione e fruizione della stessa. Nel mio lavoro considero molto importante l'esperienza che si fa della pittura e quindi cerco sempre che non si limiti al solo guardare. Uso supporti e materiali diversi, tela, carta, pvc, tessuti; e mi interessa molto come i lavori vengono esposti, la loro relazione con lo spazio. Per quanto riguarda la superficie pittorica invece, mettendo in gioco ambiguità' evidenza, ripetizione, variazione, regole e omissioni, accettazione e rifiuto cerco di far sì che l'opera non sia mai definita e resti aperta a poliedriche interpretazioni. Volendo gli si può dare un significato metaforico, ossia, molto semplicemente, che la pittura interpreta la vita.
La vita è un passatempo è stata la tua personale da Adiacenze. Hai "invaso" lo spazio installando in tutte le parete, compreso soffitto e pavimento i tuoi lavori. Mi racconti come nasce la mostra e in cosa consiste?
Questa è una mostra che contiene molte cose, e non solo nel senso che ci sono tantissimi lavori. L'idea della mostra nasce da una prima riflessione sulla scarsa attenzione che dedichiamo a quello che guardiamo. Quindi volevo costringere lo spettatore a non “distrarsi”; ovunque lo sguardo si posa vede l'opera d'arte, perchè ci è dentro. Poi c'è il concetto di un “uno” che è composto da tantissimi pezzi, proprio come l'essere umano e la vita. Ho raccolto miei lavori dal 2014 ad oggi e con quelli ho creato un'opera unica. E irripetibile. Perchè la combinazione dei pezzi non potrà mai essere identica. Volevo immergere lo spettatore nell'opera, far si che ne facesse parte, che si sentisse a proprio agio in un ambiente avvolgente. Fare in modo che non esistesse solo il guardare contemplativo che tendenzialmente si ha di fronte a un'opera ma che se ne facesse esperienza a 360 gradi. Non è lo spettatore che gira intorno all'opera ma l'opera che gira intorno allo spettatore. Il titolo della mostra in qualche modo ha a che fare anche con questo; ha una valenza assolutamente positiva per quanto mi riguarda. La vita è il tempo che noi percepiamo scorrere. Dicendo passatempo si fa riferimento a un qualcosa che si fa con piacere e in genere si contrappone al lavoro o a qualcosa che si fa per obbligo. Rendere la vita un passatempo in questo senso sarebbe la cosa più auspicabile per ognuno di noi. E allo stesso tempo la vita è solo un passatempo. Ognuno di noi non è che un infinitesimale pezzettino di quello che chiamiamo vita quindi evitiamo di prenderci troppo sul serio. Nella sala sotterranea invece, ho messo un solo quadro, piuttosto grande, che si illumina solo una volta che lo spettatore gli è difronte e molto vicino. E qui è come se avessi voluto dire che l'arte è assoluta e noi siamo soli davanti ad essa. E merita tutta la nostra attenzione. Qui la luce ha tempo limitato e ho voluto costringere lo spettatore anche temporalmente. Una sola cosa da guardare e per un tempo limitato, sempre per tornare all'idea iniziale dell'attenzione.
Sei fra i co-fondatori di Supergiovane, mi racconti in cosa consiste il progetto, come nasce e cosa lo caratterizza?
Supergiovane è un progetto indipendente nato circa un anno fa insieme ad amici artisti. Oltre a me sono coinvolti Matteo Negri, Isabella Nazzarri, Riccardo Gavazzi e il duo BN+ (Giorigo Brina e Simone Novara). L'idea è nata dalla volontà di dare spazio ad artisti più o meno giovani anagraficamente ma giovani a livello professionale in un modo meno formale rispetto a quello delle gallerie. Non abbiamo uno spazio fisso e cerchiamo di volta in volta di trovare gli spazi che meglio si adattano alla natura del progetto a cui l'artista coinvolto sta lavorando e lo aiutiamo a svilupparlo.
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