Federico Clavarino, classe 1984, è fotografo italiano che vive a Londra. I suoi scatti narrano temi come il potere, la storia e la rappresentazione attraverso la staticità dei paesaggio immortalato; un viaggio su cui soffermarsi e riflettere. Ha pubblicato numerosi libri tra cui Italia o Italia, Hereafter e Alvalade. Di seguito l'intervista con Federico.
Chi è Federico Clavarino e qualՏ il percorso che ti ha portato a diventare fotografo?
Alla fotografia mi ci sono avvicinato quasi per caso, almeno apparentemente. A ventidue anni mi ero trasferito a Madrid, era il 2007, e mi ero portato dietro una piccola macchina digitale che mi aveva venduto un amico di seconda mano. All'inizio era una maniera di dare forma all'esperienza strana di essere in un posto sconosciuto in cui non conoscevo nessuno e di cui non parlavo la lingua, e una maniera di comunicare con amici e famiglia. All'epoca non c'erano gli smartphones e la gente non professionista non si portava appresso macchine fotografiche se non per pratiche legate al turismo. Forse era anche una maniera di portarmi dietro qualcosa di mio padre, anche lui fotografo. Un giorno lavorando in un bar un compagno di lavoro mi parlò di un corso di fotografia in una scuola chiamata BlankPaper. Iniziai con un corso base di pochi mesi. A quell'epoca la scuola era fondamentalmente uno scantinato nel quartiere di Lavapies, e sembrava più una setta che una scuola. Dopo pochi anni crebbe fino a diventare un luogo d'incontro per una nutrita comunità di fotografi e di persone interessante alla fotografia. Fu in quel momento che iniziai ad insegnarci. Lasciai la scuola nel 2017, poco prima che chiudesse. E' in quegli anni che la fotografia diventò un'ossessione, e insieme il mio principale metodo d'indagine. In un certo senso è qualcosa che mi succede ancora adesso, la visione fotografica (che per come lo intendo io, è un ambito enorme ed antichissimo, precedente all'invenzione delle tecniche e delle pratiche discorsive che di solito raggruppiamo sotto il nome di fotografia) è a tratti l'oggetto e a tratti il metodo della mia ricerca.
I tuoi scatti sono caratterizzati da una semplicità formale degli oggetti immortalati, uno sguardo personale che si sofferma e studia il soggetto, cosa caratterizza la tua ricerca?
Penso che la semplicità formale di cui parli derivi dal fatto che per me la fotografia è, almeno in parte, riconducibile a un gesto. Come un gesto, una fotografia è qualcosa di momentaneamente arrestato e sospeso, ma è anche oggetto di una segnatura, ovvero qualcosa che acquisisce ogni volta un senso e una contingenza, una certa concretezza. E' anche un sintomo, un luogo di echi e di fantasmi. Nulla è immortalato in fotografia, è semplicemente dislocato, portato a fare parte di un sistema diverso, che è pervaso da determinate relazioni sociali e materiali che cambiano nel tempo. E' come se ogni singola fotografia fosse un nodo, ed il mio lavoro di fotografo consistesse nel tessere tele di cui io stesso sono parte. Il gesto dell'annodare e del tessere è anch'esso infatti parte della tela nel suo continuo sfaldarsi e ricostituirsi, così come l'atto di osservare e misurare lo è in un esperimento scientifico. La domanda è: dove finisce l'esperimento?
Italia o Italia è uno fra i tuoi primi libri fotografici, come nasce il progetto e cosa rappresenta?
Il progetto nasce dal rincontro con il territorio italiano qualche anno dopo averlo lasciato, forse anche da un'esigenza del tutto personale, quella di situarmi rispetto al paese nel quale sono nato e cresciuto. E' il risultato di quasi cinque anni di viaggi in Italia, pressapoco tra il 2009 e il 2014. Le tematiche affrontate nel lavoro sono emerse durante i viaggi e nei periodi intermedi di ricerca e di confronto con le immagini raccolte ogni volta. Oltre a un elemento autobiografico, Italia o Italia contiene riflessioni sulla storia e l'architettura, sullo spazio e la sua rappresentazione, cenni a un certo universo pittorico, simbolico e gestuale, insieme a molti altri segreti. Ma non è un saggio erudito, tutt'altro, è più un posto che va esplorato, preferibilmente a mezzogiorno, quando le ombre sono più dense. E' anche un libro che va passeggiato più volte, avanti e indietro.
The Castle è un progetto interamente in bianco e nero, un viaggio attraverso la luce su oggetti e situazioni banali, cosa caratterizza questo libro?
Queste ultime due domande sono stato tentato di rivolgerle a te, che i libri li hai letti. Mi è difficile riassumere il contenuto dei miei lavori in poche parole, e mi piace che conservino l'enigmaticità di dei rebus, in cui chi legge deve lavorare un po' per decifrarne il significato, o meglio dei sogni, le cui interpretazioni non finiscono mai. The Castle, in particolare, è un libro enigmatico la cui intenzione è quella di aprire parecchie porte e lasciarle aperte. Il titolo stesso si riferisce a un'opera incompiuta di Kafka. Alche il mio libro non finisce, e in ogni capitolo viene applicato un metodo diverso allo stesso oggetto, è come se il bambino che appare all'inizio del libro con un terrario in mano scrutasse il suo contenuto per un po' per poi girarlo e guardarlo da un altro punto di vista.
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