Luca Massaro, classe 1991, è artista visivo italiano. Lavora sul rapporto tra testo e immagini attraverso una decontestualizzazione data dallo scatto, il cui soggetto sono parole che si aprono a differenti letture. Fra i libri pubblicati vi è Vietnik, sviluppato durante tre anni di soggiorni in America. Di seguito l'intervista con Luca.
Credo che il percorso vero sia iniziato al Liceo Classico a Reggio Emilia grazie a una ottima professoressa di Italiano e a una persona che frequentavo all'epoca. Fin da molto piccolo, i miei genitori ci lasciavano disegnare sulle pareti della mansarda. Pur essendo lontani dall'arte e della fotografia (non abbiamo mai avuto macchine fotografiche in casa), frequentavano alcuni amici da cui ho scoperto che l'Arte poteva essere un mestiere: mi ricordo un signore che abbracciava gli alberi e un dipinto "graffito" –che all'epoca mi sembrava simile a quelli che facevamo noi in mansarda– molto apprezzato e rispettato da tutti. In un certo senso ho fatto da sempre quello che faccio ora: suonavo io la chitarra che avevano regalato a mio fratello o dipingevo con le tempere del mio prozio, sempre con la serietà e l'applicazione della scrittura, all'inizio le scritte sui muri in mansarda. Ho studiato letterature francesi e inglesi a Milano e Parigi, e parallelamente lavoravo nella redazione di un magazine: più che le cose che scrivevo, gli editor apprezzavano le mie fotografie e da lì è nato questo doppio legame tra immagine e parola che dura tuttora.
La tua ricerca ruota attorno alle parole fotografate che diventano immagini comunicative, che creano un dialogo attraverso la loro decontestualizzazione, in contrasto con la loro collocazione originaria. Mi racconti cosa caratterizza il tuo lavoro?
Sì, fin dal 2010 fotografo parole, non so, forse perché studiavo linguistica e semiotica all'Università, o perché avevo un amico graphic designer e avrei voluto essere uno scrittore, o perché avevo letto quell'anno Ficciones di Borges, in cui la città immaginaria dell'incipit, Uqbar, si trova "alla congiunzione di uno specchio e un'enciclopedia". Ho un archivio di 1001 parole, tra le fotografie scattate in Europa, Giappone, Messico, America, ecc. Il primo esito di questa ossessione è stato un libro pubblicato da Danilo Montanari Editore nel 2015, "Foto Grafia", in cui ho selezionato solo le parole che avevano a che fare con il medium fotografico. All'epoca mi interessava il lato concettuale di ibridazione di significato e significante, poi pian piano la realizzazione è diventata sempre più attenta all'installazione tridimensionale: ho iniziato a estrarre, con procedimenti vettoriali (propri della grafica commerciale), alcune scritte dai miei appunti fotografici e a stamparle sulle superfici più diffuse nella grafica pubblicitaria e nel mediascape online e urbano, come vetro, plexiglass, billboard, lightbox, anche in collaborazione, in progetti offsite e online (www.gluqbar.xyz). Da piccolo sfogliavo un libro di Ghirri e tutte le pubblicità di moda sui giornali di mia madre: il risultato non è più fotografia concettuale nostalgica, nè i lightbox patinati da duty-free dell'aeroporto, ma quell'intersezione un po' schizofrenica di questi due mondi con cui sono cresciuto.
Il titolo – oltre che riferirsi alla canzone recente di Frank Ocean – è un'accettazione dei due mondi di cui ti parlavo sopra: basso e alto, commerciale e concettuale, a cui guardo con ugual rispetto. Tutto il lavoro Vietnik si basa su questa dualità: le mostre personali precedenti si chiamavano "Quasi-Quasi" e "Seeing Double". Ma è riduttivo descrivere Vietnik come un libro "sulla dualità intrinseca del mezzo fotografico e il suo legame con la costruzione performativa delle identità". Dopo lavori immediati e diretti come "Foto Grafia", volevo andare nella direzione opposta, quella della complessità, dell'enigma, del Bildungsroman foto-testuale, per sinestesia come nelle canzoni di Dylan ("Vietnik" è il nome che Godard dà a Dylan nel film "Masculin-Feminin").
Per quanto riguarda la mostra a Viasaterna che ha concluso il ciclo di Vietnik, il modo di lavorare è stato diverso, perché le pareti di una galleria non funzionano per diacronia come un libro d'artista o un romanzo. Per questo abbiamo lavorato su un'installazione doppia, due stanze di impatto, una white cube, una dark room, lightbox e stampe classiche con l'aggiunta di parole stampate su vetro e sulle pareti. In questo modo il ciclo-viaggio-Vietnik (che ha coinciso con un periodo vissuto in America fotografata nel libro), si è chiuso ritornando al punto da cui ero partito –ma con la maturazione dell'esperienza di viaggio– e al quale inevitabilmente ritorno: il rapporto tra immagine e parola, e Milano.
Come nasce il progetto nata per il progetto Giovane Fotografia Italiana e affissa a Reggio Emilia?
Nell'installazione recente a Reggio Emilia su billboard, invece che installare le scritte estratte da fotografie con il cellulare su altre fotografie fine-art, ho deciso di semplificare, date le specificità delle affissioni. In questo modo le 5 stampe di 3metri hanno una coerenza visiva riconoscibile: "frammenti rifulgenti di pubblicità strappata che non è più pubblicità" scrive Bifo nel testo introduttivo. Con Giovane Fotografia Italiana avevo esposto per la prima volta i miei lightbox nell'edizione 2016 di Fotografia Europea: questa nuova installazione, per quanto utilizzi linguaggi commerciali di partenza simili, ha esiti opposti. Quindi ancora dualità, antinomie e iconotesti, ma con la libertà di lavorare in maniera veloce, site-specific e nuova ad ogni occasione espositiva, ma sempre coerente al mio linguaggio: un "vederci doppio", "così-così", "quasi-quasi", guardare ed essere guardato contemporaneamente da diversi punti di vista.
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