Chi è Michele Guido e qual è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
Mi piacerebbe essere un contadino a “bordo dell’arte” come quelli che già dal ‘300 erano liberi di coltivare il loro orto perché avevano conquistato “il diritto di poter pagare un fitto in denaro e non più in conferimenti di prodotti agricoli”. Quando sarà pubblicata questa intervista saremo mentalmente proiettati in un “dopo” che dovremo costruire. Ora mi sento in una specie di tempo zero. Tutto quello che dirò in questa intervista riguarderà quel “prima” che già da qualche anno stava mutando in un “dopo”.
Sono stato a Milano la prima volta per una gita scolastica, la seconda per iscrivermi a Brera. Non c’era mai stata una vera e propria intenzione di fare l’artista. Ho vissuto fino a vent’anni ad Aradeo, un piccolo paesino in provincia di Lecce. Trascorrevo il tempo sia in campagna, osservando come dai semi si generavano le piante, sia nella camera oscura di mia zia dove, per magia, dai fogli di carta fotosensibile, si creavano immagini. Non c’era instagram! Fu una collezionista di Gallipoli che mi aveva commissionato un intervento per il suo studio, a suggerirmi Brera come luogo in cui approfondire gli studi che avevo fatto all’Istituto d’Arte. Era il 1997. Sin dal primo anno scoprii l’arte contemporanea grazie ai corsi di Laura Cherubini e Giacinto Di Pietrantonio; poi, nell’estate del ’99, il mio modo di vedere il mondo che mi circondava cambiò. Mentre frequentavo il centro T.A.M. nelle Marche, ebbi la fortuna di conoscere Eliseo Mattiacci, il nostro visiting professor, Hidetoshi Nagasawa, che era stato invitato per una conferenza, i suoi allievi e quelli di Luciano Fabro. Quando a settembre, tornai a Milano ero un’altra persona: iniziai a frequentare le lezioni di Fabro nell’aula 4, anche se non ero iscritto al corso, e decisi di fare la tesi con Jole de Sanna sul “concetto di Ma” in Nagasawa. Parallelamente, Cherubini e Di Pietrantonio, per tutto l’anno programmarono un ciclo di conferenze invitando molti artisti che venivano da diverse parti del mondo. C’era una bella atmosfera in quel periodo. Devo molto a Brera. Nel 2001 organizzammo con Jole De Sanna una conferenza sul “concetto di MA” nello studio di Nagasawa presso la Casa degli Artisti. Da allora mi fu affidato quello spazio fino alla chiusura arrivata nel 2007. Il 1° febbraio di quest’anno la Casa è stata finalmente riaperta e ho ricevuto l’invito da parte di Mattia Bosco per trascorrere un periodo di residenza negli spazi completamente ristrutturati, come comparivano quando il palazzo era stato costruito. Se dovessimo definire uno spazio di tempo nel quale ha avuto origine tutto, è sicuramente quello che va dal ’99 al 2001. In quei tre anni di formazione si sono create le basi per una ricerca che porto avanti ancora oggi, anche se in modo sempre più stratificato e multidisciplinare.
Con la mostra presso la Fondazione Pomodoro del 2008 e le mostre personali presso la galleria di Sara Zanin nel 2009, ’13 e ‘15 ho potuto realizzare i primi garden project e verificare il lavoro nello spazio con progetti sempre più complessi rispetto a quelli che potevo installare nello studio. Poi, nel 2011, è iniziata la collaborazione con Lia Rumma: ambiente diverso da quello di una giovane galleria, sicuramente una palestra per me, soprattutto per il dialogo costante con una persona che sa “guardare” e sa leggere lo spazio come pochi sanno fare. Ho sempre sostenuto entrambe le realtà, sono fondamentali per un artista, perché quello che può nascere da una parte può essere sviluppato nell’altra.
La tua ricerca unisce architettura e natura, mi racconti cosa la caratterizza e qual è il tuo approccio?
Il rapporto che c’è tra architettura e natura nel mio lavoro va letto considerando alcuni aspetti e tenendo conto dei diversi campi d’azione. Prima di tutto il “Concetto di MA”: rappresentato dall’ideogramma 間 kaji che è la combinazione grafica di 門 kado (porta, spazio, intervallo) e 日 hi (sole). A Jole de Sanna che chiedeva “è qualcosa che si sottrae all’unità dello spazio?”, Nagasawa rispondeva: “sì, però ogni stanza può essere considerata un MA, infatti noi andiamo in montagna per raccogliere i tronchi per costruire la casa dividiamo il tronco in quattro e ciò corrisponde ai punti cardinali. Ogni parte deve mantenere la stessa posizione quando si costruisce la casa e c’è un quarto di tronco aggettante per ogni punto. Lo spazio che si forma è un MA”. (dalla conferenza del 2001 alla Casa degli Artisti). La sezione delle piante, molto frequente nella mia pratica artistica, viene proprio da questo concetto e mi consente di ricavare il modulo, che appartiene al mondo vegetale e non a quello animale: noi essendo individui siamo indivisibili. Dividere significa moltiplicare. Dal modulo vegetale si scoprono le forme geometriche elementari che uso per mettere in luce il disegno di un giardino che esiste già nella pianta, ma che noi non vediamo. C’è un concetto molto interessante di G. W. Von Leibniz in cui si dice che:
“la geometria non è la scienza della figura, ma la scienza dello spazio. Fare geometria significa studiare lo spazio. Lo spazio è come una struttura, un ordine di situazioni, dove per situazioni s’intende una relazione tra oggetti. Un punto non è altro che un oggetto, e la relazione tra un punto ed un altro, non è altro che la distanza tra punti”.
Quando pensiamo a qualcosa che ancora non conosciamo, non sappiamo darle un perimetro o una forma finita; riuscire a misurare le cose e disegnarle, significa definirle in termini di dimensione e di conoscenza. Conoscerle e sviluppare una relazione tra di loro significa innescare un processo di biodiversità che l’architettura dovrebbe creare. Torna così la figura del “contadino” intesa come colui che misura la terra: “il geometra agrimensore”. Emanuele Coccia ci ha insegnato che ogni pianta con le sue foglie dilata la propria superficie piana per aumentare sempre più il processo della fotosintesi. Come le foglie con la loro superficie conquistano lo spazio aereo, così le aiuole del giardino, la cui forma è data dalla geometria vegetale, modificano la superficie terrestre. Invece quando penso al processo della fotosintesi, mi vengono in mente le opere di artisti come Medardo Rosso, Mark Rothko o Francesco Lo Savio perché sono plasmate dalla luce, sono “spazio e luce” nello stesso tempo. In tutto il ciclo di lavori legati all’arte rinascimentale, ogni opera del passato viene analizzata e trattata come se fosse una delle piante che utilizzo per i miei lavori. Cerco di portare alla luce la costruzione geometrica che ognuna di quelle opere nasconde sotto la propria pellicola pittorica e i rilievi delle specie botaniche per sviluppare nuovi studi come accaduto per pulsar___2017, presentato per Meteorite in Giardino 10 alla Fondazione Merz, e study for venus and mars garden project realizzati con il contributo scientifico della ricercatrice INAF Mariateresa Crosta, di Altec e l’Osservatorio Astronomico di Torino.
Quando ci troviamo di fronte ad un dipinto ne vediamo solo l’ultimo strato superficiale. Ma pensiamo soprattutto a quello che accade con la teorizzazione della prospettiva lineare. Cosa nasconde l’esito finale dell’opera? La geometria alla base, la rappresentazione dello spazio, la posizione dei soggetti, le aree destinate all’architettura, al giardino, al paesaggio, ecc., non si vedono, ma ci sono. Immaginando, allora, di sezionare alcune di queste opere in senso longitudinale e in più livelli, riporto la struttura geometrica in primo piano e la trasferisco su dei vetri attraverso la serigrafia. Il lavoro di antropizzazione dello spazio, reso dagli artisti attraverso la prospettiva, è ridotto in figure geometriche piane, come se fossero delle aiuole che annullano la parte figurativa e la profondità spaziale che era la parte dominante di quelle opere. L’intero ciclo di questi lavori, iniziato diversi anni fa, sarà esposto nel 2021 in occasione della III edizione del Premio Anna Morettini. Generalmente l’architettura fa pensare alla verticalità, nel mio caso si sviluppa orizzontalmente, pianeggiante e mimetica. Se foglia e petalo sono la metamorfosi dello stelo, l’aiuola è la proiezione della struttura geometrica vegetale e il lavoro è uno strumento per generare il disegno del giardino. Mi fa sempre piacere ricordare una frase che Gabriele Girolamini ha usato per la mia personale del 2013: “gli architetti ci hanno insegnato ad osservare un edificio come fosse una pianta, tuttavia i giardinieri non ci hanno mai descritto una pianta come fosse un edificio. Questo compito spetta all’arte”. Negli ultimi anni sto prestando molta attenzione alle architetture vegetali temporanee, tipo le “galle”. Si tratta di un processo innescato da alcuni insetti all’interno di una foglia o di un frutto; quando l’Andricus quercuscalicis, ad esempio, depone le sue uova nella ghianda, subito dopo s’innesca un processo di trasformazione in cui il frutto cambia forma e dimensione. Diventa una specie di nido che si nutre della pianta per far crescere sia l’architettura e sia l’insetto che appena è maturo, vola via e abbandona il suo spazio. Noi Sapiens Sapiens realizziamo costruzioni che puntano all’eternità, invece queste sono temporanee e biodegradabili. Questi progetti fanno parte di una serie di lavori che s’ispirano all’Hypnerotomachia Poliphili, il romanzo di Francesco Colonna del 1499. Infatti, quando nel racconto, il Poliphilo si addormenta per iniziare la sua avventura in sogno e inizia il percorso per scoprire architetture e giardini, si trova sotto un albero di quercia.
È come se anche la pianta sognasse, creando nuove forme attraverso i suoi frutti.
Come nasce il progetto ceiba garden project _1896 | 2018, nato dal 2007, e in cosa consiste?
Nell’agosto del 2007 ero andato a Palermo per fare delle riprese nell’orto botanico e rimasi molto colpito dagli alberi secolari di Ceiba Speciosa che avevo già fotografato cinque anni prima a Massafra, nel giardino di Jole de Sanna, un luogo fondamentale per la mia formazione visiva alla botanica. Nel 2016, mentre progettavo la personale presentata a Città del Messico, avevo iniziato a riflettere su una possibile relazione tra le piante – quelle utilizzate per i miei lavori – e la cultura del luogo di provenienza. Mi sono chiesto: una pianta può far parte del linguaggio di una popolazione? La sua cultura si può leggere attraverso lo studio di una pianta? Questa indagine mi ha consentito di trovare delle connessioni fra la struttura geometrica delle spine che ricoprono l’intera superficie della Ceiba e le antiche piramidi a forma conica che caratterizzano le aree che si trovano intorno a Città del Messico. Addirittura la piramide de ‘La Iguana’ ha un disegno architettonico legato al calendario agricolo Mesoamericano composto da un ciclo di 52 anni, perché formata da 13 gradini nella parte inferiore e 4 nella parte superiore: 13 x 4 = 52. Trovo molto interessante questo rapporto tra l’albero, l’agricoltura e l’architettura; ogni cerchio che stratifica queste piramidi è relazionato a dei cicli stagionali, e mi fa pensare ai cerchi che scandiscono la crescita spazio-temporale degli alberi. La forma delle piramidi rotonde è uguale alle spine che vestono la superficie di un albero, che per la cultura sudamericana è ritenuto sacro. L’intero progetto legato alla Ceiba Speciosa è stato poi ampliato e presentato nel 2018 a Palermo in occasione di Manifesta12 e in seguito al PAV di Torino.
Nel tuo progetto al PAV di Torino, cosmos seeds garden project _2014 | 2019, ti confronti con la natura e la sua crescita spontanea, un progetto differente, ma che si avvicina alla tua ricerca. Mi racconti in cosa consiste il progetto?
Nel 2013 avevo iniziato a raccogliere una serie di foglie che avevano una parte della superficie mangiata da insetti. L’idea iniziale era quella di usare la porzione di vuoto già esistente, per farla diventare un giardino inteso come una porzione di spazio in grado di creare biodiversità. Per la mostra Resistenza/Resilienza curata da Gaia Bindi e Piero Gilardi ho realizzato cosmos seeds garden project, il primo giardino legato a questo processo e formato da piante vive; mentre lavoravo, pensavo che, in fondo, questa pratica di delimitare un mio spazio e trasformarlo in un giardino con delle piante che sceglievo io, mi accompagna da quando ero bambino. Per il parco del PAV quella porzione di spazio è stata sviluppata fino a farla diventare una superficie di circa 9 metri per 3. Come per la creazione di un luogo nell’antica tradizione giapponese, anche in questo caso, il distanziamento delle quattro sezioni verticali delle canne di bambù determinava l’area di ogni aiuola. Intorno alle canne di bambù, è stata poi cucita una rete a maglia larga, che aveva la funzione di proteggere i semi e le piante nella prima fase, ma che, come si può vedere nelle foto, diventava una vera e propria “architettura”. Per questo giardino sono state usate varietà antiche provenienti dalla Banca dei Semi Salentina. I semi fertili hanno generato piante fertili, che a loro volta, hanno generato altri semi fertili, per essere poi donati ai visitatori. La realizzazione del giardino, dalla semina al raccolto e alla distribuzione che avverrà all'interno della “Libera Scuola del Giardino”, è stata possibile grazie ai diversi laboratori organizzati, anche in collaborazione con l'accademia di Belle Arti di Torino, dalle Attività Educative e Formative del Parco Arte Vivente curate da Orietta Brombin. Sicuramente questo lavoro come altri che sto sviluppando da qualche anno, saranno gli anelli di una collana che si sta muovendo in una direzione che vede sempre più mani e piedi immersi nella terra per generare radici e scrutarne le sue potenzialità
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