Sofia Silva, classe 1990, è un'artista italiana che utilizza la pittura come medium espressivo, lavorando spesso su parti della tela attraverso un processo di decostruzione. Fa parte del team di Turps Banana, magazine di pittura internazionale scritto ed edito da soli pittori. Di seguito l'intervista con Sofia.
Chi è Sofia Silva e qual è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
Alcuni ricordi della prima infanzia mi fanno pensare che il percorso sia iniziato presto.
Fino a sei anni ho trascorso le estati a Ciammarita, in Sicilia, nella scuderia del nonno materno. Avevo un corpo minuto, una calotta cranica immensa e i capelli rasati. Durante il giorno cavalcavo il mio pony e intrappolavo le mosche nei bicchieri. Ho sempre detestato il riposino pomeridiano, così dalle due alle quattro sedevo sui gradini della porta d’ingresso a sgranare fagioli per la pasta ca fasuola 'ncirata. La stradicciola era deserta e l’unico oggetto che mi era dato guardare mentre sgranavo i fagioli era un cancello molto alto fatto di canne di bambù. Non vedevo nulla di quel che stava al di là del cancello e questo senso di visione occultata, quasi uno scudo ottico, arrivava a provocarmi male agli occhi e alla testa. È uno dei miei primi ricordi legati alla visione, o alla sua interdizione. Un altro ricordo risalente a quegli anni è parimenti importante, ma connesso alla composizione. Mi erano stati regalati cinque adesivi con cui avevo scelto di decorare il mio specchio. Ero vanitosa e dunque lo specchio rivestiva un valore capitale. Non sapevo come disporre gli sticker, se tre da un lato e due da un altro, tutti e cinque dallo stesso lato, due per lato e uno in cima. Trascorsi ore e ore a ragionare se ambissi a raggiungere una composizione armoniosa o stridente. L’armonia mi sembrava scontata, da stupidi, ma anche la disarmonia aveva un che d’ingenuo proprio perché cercava di fare il passo più lungo della gamba. Alla fine appiccicai uno sticker e lo rimossi il giorno dopo, esausta. In un certo senso quello specchio è stato il mio primo quadro.
Cosa caratterizza la tua ricerca artistica? Quali sono i temi che ti trovi ad approfondire?
La mia ricerca artistica è contraddistinta da una forte passione per la pittura intesa in senso puramente mediale. Con il passare del tempo ho capito che nella mia testa la pittura non differisce dalle scienze filosofiche e matematiche, quando dipingo mi sento un grammatico o un antico pitagorico che traccia le proprie scoperte aritmetiche sulle sabbie. Hai presente quella domanda che spesso viene posta nelle interviste: se dovessi resuscitare qualcuno e invitarlo a cena…? Ecco, io vorrei cenare con Clement Greenberg per capire come si relazionerebbe all'attuale. Ho sviluppato un’intolleranza per le immagini e per il culto a esse connesso. Non attingo da alcuna immagine, da nulla che può essere visto, quanto piuttosto dalla logica della visione o da pensieri di natura estetica. Nessuna narrazione, cerco l’intuizione; non il teatro, confido nell'evocazione; non rappresento alcuna illusorietà, ambisco a creare un oggetto. Il mio processo cambia di quadro in quadro ma cerco sempre di non padroneggiare nulla di quello che compio sulla superficie della tela. Per me la pittura è linguaggio, e più che dipingere quadri, li decostruisco.
I titoli dei tuoi lavori sono sempre molto evocativi, narrano una piccola storia dell'opera stessa dandovi una lettura, come “Nontiscordardimé”, “Nudo di donna con orecchini” o “Festival Gondola”, come nascono?
“Festival Gondola” esemplifica bene come nasce un mio titolo. Quel quadro è stato concepito come una spina di rosa che doveva andare a punzecchiare un quadro di un altro autore (che non mi piaceva) esposto vicino al mio in una mostra collettiva. Inizialmente avevo incorniciato “Festival Gondola” con una cornice metallica che poi ho distrutto. Di quella cornice sono rimaste due molle che ho attaccato ai bordi del telaio di modo che risultasse scostante nei confronti dell’opera attigua. Della serie: stai lontana!
Sulla superficie di “Festival Gondola” sono apposti due frammenti, uno proviene da un precedente quadro in cui copiavo alcune chinoiserie di Tiepolo, l’altro è una delle “dita” che nel 2017 dipingevo costantemente per due ragioni: scrivevo opinionismo sui giornali, ma di fatto l’opinionismo m’irritava e dunque avevo eletto a mio simbolo il signum harpocraticum, e mi stavo allontanando dalla pittura d’immagini sicché ritenevo che il mio dito indice fosse l’oggetto meno soggettivo che potessi reperire, semplicemente perché era la prima forma a darsi davanti ai miei occhi. Amo mangiare in take-away il cibo della cucina orientale, e in studio quel giorno avevo di fronte a me numerosi cartocci dalle cui superfici trassi il motivo dei segni marroni su fondo rosso. Il titolo nasce dalla congerie di questi elementi; mi serviva qualcosa di allegro, di bellicoso ma in frivolezza, che contenesse Venezia e un non so che di arte pirotecnica cinese. Andando avanti per libere associazioni sono arrivata a “Festival Gondola”.
Mi parli del tuo progetto per “Les Pratiques Solitaires” di THEVIEW?
Nell’autunno del 2018, THEVIEW ha chiamato cinque artisti a presentare cinque esposizioni personali nello stesso spazio e nell’arco dello stesso giorno. Lo spazio era un padiglione vetrato che anni addietro aveva ospitato un negozio di fiori, lungo la strada del monte di Sant’Ilario a Genova.
Il mio intervento si intitolava “Il punteruolo rosso”, dal nome di un parassita delle palme altamente distruttivo, capace di creare dei veri e propri cimiteri vegetali nel paesaggio ligure. Il punteruolo può essere annientato con una tecnica definita “del maschio sterile” dove s’inserisce un esemplare sterile tra le femmine punteruolo, abbattendo i meccanismi riproduttivi. Questo metodo mi aveva evocato connessioni duchampiane, pensavo a un opposto de “La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche”. Tenendo il punteruolo come baricentro evocativo ho creato una serie di disegni per quell’occasione. Uno di essi presenta un riferimento esplicito a “ Tu m’ ” (1918), un dipinto di Duchamp che mi aveva estremamente appassionata per la lettura che ne hanno dato Thierry de Duve e David Joselit. “ Tu m’ ” è l’opera in cui Duchamp fa rientrare il readymade nel reame pittorico chiudendo il proprio cerchio dialettico tra l’azione metamorfica del dipingere (“passage” nel lessico critico), i segni reificati (“picture”) e il readymade. Non ricordo bene il delirio che mi era preso tra punteruoli e teoria della pittura, ma ero sicuramente in fase destruens e ritenni opportuno allearmi con quel demone antipaesaggista del punteruolo.
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