Chi è Matteo di Giovanni e qual è il percorso che ti ha portato a diventare fotografo?
Domanda impegnativa. In un certo senso, la fotografia mi ha accompagnato sin da ragazzino, Mio zio era fotografo e da lui ho ereditato libri e una Konica T3 35mm. Parliamo della metà degli anni 90. Da lì a farla diventare una professione è passato diverso tempo. Tutto è iniziato quando mi sono trasferito a Roma per l’università ed ho conosciuto un fotografo di viaggio che lavorava per Condè Nast. Diventai suo assistente, seguendolo durante i lavori, facendo le prime stampe in camera oscura e i primi esperimenti sulle mie cose, ma non avevo una idea chiara di quello che volevo fare. Studiavo filosofia al tempo. Con lui ho cominciato a pensare che la fotografia potesse essere un lavoro e decisi di trasferirmi a Londra, dietro suo consiglio, dato che la sua carriera da fotografo era partita da lì. Dalla capitale britannica è partito tutto. Tra i vari lavoretti di ogni sorta, ho iniziato a collaborare con piccole riviste, magazine, ONG e fare i primi lavori personali.
Quello che ha cambiato veramente le carte in tavola è stato quanto, nel 2010, sono stato accettato al Master in Documentary Photography all’università di Westminster, dove insegnava, tra gli altri, David Campany. È stato lui in primis a farmi scoprire e soprattutto “vedere” la fotografia da un altro punto di vista. Il libro come opera, la fotografia di viaggio, l’uso della fotografia in svariati modi, l’editing, il rapporto foto-testo. L’elenco potrebbe continuare all’infinito. È stata veramente una vera e propria rivoluzione. Da quel momento ho iniziato ad approcciarmi alla fotografia in tutt’altra maniera. Finalmente mi era chiara la sua potenza espressiva.
La tua ricerca fotografica è contraddistinta da una relazione con il paesaggio in cui ti immergi; cosa la caratterizza e come scegli i soggetti da immortalare?
Non amo definire la fotografia per “generi” e di conseguenza non amo essere definito fotografo di paesaggio o paesaggista, quindi gradisco molto di più la tua domanda che parla di ricerca fotografica in relazione con il paesaggio. In Italia troppo spesso si ha il bisogno di creare categorie, che in realtà sono fluide e si combinano tra loro. Ed è proprio quello il bello!
Il discorso sul landscape è molto lungo e si potrebbero spendere ore a parlarne. Quindi lo lascerei per un discorso dedicato esclusivamente all’argomento se ti andrà di farlo. Il mio è un caso un po’ particolare, mi piace parlare di spazio più che di paesaggio. Tutto è nato dopo un incidente avvenuto nel 2011, che ha completamente cambiato il mio rapporto con lo spazio. Avevo bisogno di capire in che modo sarei stato in grado di riapprocciarlo nuovamente, di muovermi al suo interno e di ristabilire un rapporto con esso. L’unico modo per farlo era mettermi in viaggio. La scelta dei soggetti è stata spesso casuale, cosa che potrebbe sembrare banale in sé, ma in realtà sposta gran parte del lavoro in fase di editing, che è dove in realtà costruisco il lavoro. Ormai mi verrebbe da dire in simbiosi con Emiliano Biondelli, che conosce benissimo il mio modo di fotografare e di lavorare in genere. I primi due libri sono stati realizzati con lui. Il terzo, che formerà una sorta di “trilogia involontaria” sarà sempre fatto insieme.
Mi racconti come nasce il tuo libro I wish the world was even?
Come accennavo prima, I wish the word was even nasce dalla necessità di ricollocarmi nello spazio dopo un lungo stop forzato. Il libro è l’esito del primo vero on the road che sono riuscito a fare dopo una lunga fase di riabilitazione. Per farla brevissima ho lanciato una campagna di crowdfunding per un viaggio a Capo Nord di due mesi, che ha avuto molto successo, diverse sponsorizzazioni e sono partito verso nord quando la luce iniziava a diminuire, a ottobre 2015. È stato un viaggio molto impegnativo dal punto di vista fisico e mentale. La mancanza di luce non aiutava, ma è stato fondamentale per tutto quello che è venuto dopo. Avevo fissato solo la meta e alcuni punti fermi durante il tragitto, tutto il resto è nato dagli incontri, dalle intuizioni, dalle sensazioni e dalla curiosità. Abbiamo detto che alla base del lavoro c’è il desiderio di capire come riuscire a posizionarmi nello spazio o chiamiamolo anche paesaggio se vuoi. Per questo motivo le immagini hanno tutte una distanza simile dal soggetto. Durante il viaggio ho scattato anche ritratti e altri tipi foto, ma in fase di editing ho capito che la cosa più importante era proprio quella del rapporto con lo spazio. Questa scelta è stata fondamentale, perché mi ha permesso di mescolare i testi del mio diario di viaggio, le sensazioni, le emozioni, le paure, le insicurezze con il paesaggio. Questo è uno dei motivi per cui non ci sono riferimenti geografici o temporali all’interno del volume.
Per me il paesaggio è metafora. Nel paesaggio c’è sempre una presenza umana, una traccia, qualcosa lasciata, un elemento che resta e caratterizza quello spazio in quel particolare modo e in quel particolare momento. Il titolo stesso del lavoro è altamente metaforico. In italiano la parla inglese even, come usata nel titolo, può avere due significati: da un lato piatto, liscio e dall’altro giusto. Ovviamente si tratta di un desiderio irrealizzabile, perché il mondo non potrà mai non avere ostacoli fisici e non potrà mai essere giusto per tutti. Non a caso da qualcuno è stato giudicato come lavoro distopico, una delle poche definizioni che ho apprezzato. Tornando al titolo e alla mia situazione personale; un modo piatto mi permetterebbe di muovermi meglio al suo interno e un mondo giusto mi darebbe più possibilità di avere una vita che si avvicina di più a quella che definiamo normalità. Dal punto di vista della disabilità, l’Italia resta uno dei Paesi meno evoluti culturalmente di tutta l’Unione Europea. Per questo parlo di sogno irrealizzabile. So che non è possibile e cerco il modo migliore per adattarmi allo spazio che mi circonda. Questo mi ha aiutato a comprendere quel lavoro.
Blue Bar è il tuo ultimo libro appena pubblicato, qual è la ricerca che approfondisci con questo progetto fotografico?
Ho cominciato a scattare Blue Bar poco dopo aver finito il primo lavoro, è stato quasi un continuum in un certo senso. Il lavoro è stato scattato dal 2016 al 2019 e nasce, se vogliamo, da un approccio più documentario, nell’accezione di Walker Evans. Io sono nato a Pescara, sono andato a studiare a Roma e poi ho vissuto a Londra e Bruxelles. Il nord Italia per me era sempre stato un territorio semi-sconosciuto. Ero venuto solo una volta a Milano ed ero stato pochissimo nel resto del nord della penisola. Dopo essermi trasferito definitivamente a Milano nel 2014, ho deciso di esplorare quella che era un’area per me alquanto sconosciuta e, nel tempo libero, vagavo per l’hinterland milanese, spingendomi sempre un po’ più in là, fino a lambire gli argini del fiume. Sono stato sempre attratto dai fiumi e il Po per il nostro Paese ha un ruolo fondamentale. Sia politico che geografico. Quindi ho deciso di iniziare dei viaggi lungo il fiume, fino ad arrivare al Delta.
Un incontro che mi ha stregato. Mi ha portato con la mente a tutti quei paesaggi visti nel cinema americano, letti nei libri e ascoltati nella musica di Tom Waits, Nick Cave ed altri. Anche qui torna il discorso del paesaggio come metafora, perché in realtà non si tratta di un lavoro documentaristico sul Delta del Po, ma della mia interpretazione di quello spazio sulla base delle mie esperienze pregresse unite a quelle di quel preciso momento storico. Con più precisione si può dire che è un lavoro su due concetti fondamentali dell’essere umano: l’incertezza e la ricerca. A cui aggiungerei anche lo stato d’animo della malinconia. Tutto nasce una sera in cui ero in macchina con un pescatore che mi ha guidato nelle valli, che mi raccontava di cosa significava vivere giorno per giorno nella zona del Delta. Ad un certo punto mi disse: “se mai dovesse cedere un argine, tutto sparirebbe in un attimo”. Da lì è nata l’idea centrale del lavoro: l’incertezza, la precarietà dell’esistenza e dell’essere umano, l’impossibilità di determinare con certezza quello che accadrà. Poi, per puro caso, il libro è stato pubblicato in uno dei periodi più incerti vissuti dalla nostra generazione: la pandemia. La ricerca, invece, penso sia alla base della condizione umana. Si cerca sempre qualcosa, alle volte senza nemmeno saperlo. Si cerca l’amore, si cerca la felicità, si è sempre alla ricerca di qualcosa che ci manca e, se andiamo a vedere bene, ci manca sempre qualcosa. Da questo punto di vista il bar gioca un ruolo simbolico e non a caso dà il titolo al lavoro. Il motivo arriva presto. Un altro aspetto fondamentale del Po e di molti altri fiumi è la malinconia. Ghirri e Celati sono stati gli autori che più di tutti hanno associato il Po con questo stato d’animo, che troppo spesso viene concepito in modo negativo. Ghirri, addirittura, gli ha dedicato un saggio pubblicato da MACK in inglese. In inglese il “sentirsi malinconico” è tradotto con feeling blue e proprio da qui nasce il titolo del libro: il bar che ho ritrovato due anni dopo averlo fotografato si chiama Blue Bar.
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