Chi è Sophie Westerlind e qual'è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
Sono nata e cresciuta a Stoccolma in Svezia. Ho vissuto e studiato a Londra dal 2007 al 2013 prima di trasferirmi in Italia. Oggi vivo e lavoro fra Stoccolma e Venezia. Da piccola ho sempre disegnato moltissimo, e l’immaginazione è stata l’elemento centrale in qualsiasi gioco. Con le mie due sorelle ci inventavamo spesso delle avventure all’aperto, nonostante il tempo. Il mare e il bosco non erano mai troppo lontani, e la natura per me è rimasta un luogo ideale per trovare delle idee e stimolare l’immaginazione. L’arte continua a essere il gioco più bello in assoluto. La voglia di esprimere
sensazioni ed emozioni tramite segni, forme o spettacoli si è sempre manifestata in una maniera o l’altra. Le mie prime fonti di ispirazione erano le varie persone attorno a me, ma anche dei personaggi dalla cultura ‘pop’ svedese negli anni 80 e 90, sia libri che film e serie tv. Ammiravo in particolare le idee e la creatività dei vari personaggi d’avventura creati dalla scrittrice Astrid Lindgren. Pippi Calzelunga sarà forse quella più conosciuta in Italia, ma la mia eroina preferita era un’eroina chiamata ‘Madicken’. Ciò che mi ha poi spinto a provare a entrare a Central Saint’ Martins’ a Londra è il desiderio di lavorare con le idee e le immagini. Dal 2007 al 2011 ho frequentato il BA nella vecchia sede del grande edificio a Holborn, che è diventato un punto di riferimento dove ho potuto crescere e sperimentare attraverso la mia creatività. Ho poi proseguito con un MA al Royal College of Art dove mi sono laureata nel 2013. Questi anni trascorsi nella capitale inglese sono stati fondamentali per lo sviluppo sia personale che come artista. La curiosità e l’apertura verso gli altri, l’incoraggiare a sperimentare con le idee più strane ha continuato a essere una parte importante del mio metodo di lavoro. Sono venuta a Venezia principalmente per studiare anatomia all’Accademia di Belle Arti. Volevo imparare a gestire meglio la figura umana nella pittura e studiare anatomia. La ricerca approfondita sulla pittura di Tintoretto e il confronto con il Rinascimento mi ha poi aiutato moltissimo a sviluppare il mio linguaggio personale pittorico. Venezia ormai è diventata casa e non riesco più ad andare via ;) È un luogo ideale per dipingere, (mi manca solo il verde) la facilità e l’immediatezza dei contatti umani e il fatto che abbia anche la dinamicità di un ‘porto di mare’ ha reso questa città il luogo ideale per la mia ricerca artistica. Dal 2017 ho lo studio presso l’ex Birrificio Dreher alla Giudecca. Collaboro con la Galleria Michela Rizzo che ha sede lì vicino.
Ritrai i suoi soggetti dal vivo, siano essi persone o luoghi; come ti rapporti con loro? Cosa caratterizza il tuo processo pittorico?
Il primo ritratto che ho fatto appena arrivata a Venezia era di un ragazzo austriacoiraniano che si chiama Daniel. Il mio ‘atelier’ era in uno stanzino piccolo sotto le scale della casa dove abitavo. Daniel era bravissimo e la sua tranquillità mi ha messo subito a mio agio. Con lui abbiamo finito con il fare quattro quadri assieme. La spontaneità che c’è spesso fra le persone a Venezia e le brevi distanze hanno facilitato molto il mio lavoro. Dipingere qualcuno dal vero è un lavoro di collaborazione. Decidiamo sempre le pose assieme. Ogni situazione è diversa, ma si instaura quasi sempre un rapporto speciale di fiducia reciproca. È stata un’esperienza interessante benché difficile quando sono venuti i miei genitori a posare l’autunno scorso. Il fatto che conosco molto bene le loro espressioni e il loro linguaggio del corpo mi ha certamente dato una certa libertà, ma allo stesso tempo è stato una sfida proprio per quel motivo. Durante la primavera scorsa ho lavorato insieme a Laura, una donna di trent’anni che ho conosciuto al supermercato. Una volta scoperto che eravamo vicine di casa, le ho chiesto se avesse voluto posare nei giorni del lockdown. Ci siamo messe d’accordo e abbiamo lavorato prendendo tutte le precauzioni necessarie. Laura è poi tornata a posare più volte. Credo ci siamo trovate bene entrambe a lavorare assieme e delle volte durante le sessioni nella stanza sembrava che il mondo fuori si fosse fermato per un po’. Amo dipingere e disegnare gli spazi che raccontano di una quotidianità e di un vissuto senza che ci siano delle figure presenti. Attualmente sto lavorando a un trittico di interni. La sfida più grande è di riuscire a far comunicare i tre dipinti tra di loro. Continua ad affascinarmi il processo di lavoro perché mi sembra quasi di dipingere dei ritratti poiché i soggetti sono degli spazi abitati da persone che conosco bene. La disposizione di oggetti come la chitarra a fianco a un letto, due tazze dimenticate su un tavolo oppure dei piatti di plastica con delle fette di anguria diventano appresentativi delle persone che abitano quel luogo. Per questi soggetti lavoro da delle mie foto analogiche 35 mm. Il fatto che delle persone mi abbiano lasciato fotografare un loro spazio personale la dice lunga sul rapporto di fiducia e intimità che è necessario instaurare tra noi. È stato importante qui per il loro spazio personale come lo sarebbe stato nel caso li avessi dipinti di persona dal vivo in studio.
Nel 2019 hai soggiornato all'Ex-Villaggio ENI con il progetto Borca. Cosa hai raffigurato e come hai scelto i luoghi?
Traggo forte ispirazione dagli spazi, sia interni che esterni, che hanno la capacità di raccontare un vissuto e un’intimità. Gli spazi a Borca di Cadore, dove numerosi bambini e ragazzi hanno trascorso le loro vacanze, sono carichi di emozioni e di racconti che continuano a stimolare la mia immaginazione ogni volta che ci torno. Percorrendo i corridoi mi viene sempre in mente quello che è potuto accadere tra camere e dormitori, tra la mensa, la palestra e gli spogliatoi. Già alla prima visita all’Ex-Villaggio Eni nel 2017 sono rimasta particolarmente colpita dalla stanza dove si trovano le docce, la quale mi ha rimandato a possibili incontri, voci e rumori. Il luogo è sembrato contenere emozioni dell’infanzia come imbarazzo, gioia, paura, attesa e agitazione. Dettagli e particolari come le tende, i termosifoni, le lampade e gli asciugacapelli sembravano trasmettere una testimonianza delle persone che li hanno utilizzati, appoggiandosi contro di essi o semplicemente sfiorandoli. Come molti altri spazi nella colonia, questo luogo narra delle varie presenze che lo hanno attraversato. I luoghi carichi di espressività come questo sono diventati dei naturali soggetti protagonisti per il mio lavoro in disegno e pittura durante la residenza.
Hai recentemente concluso una residenza alla Fincantieri a Porto Marghera, mi racconti com'è andata? Che luoghi ti sei trovata a dipingere?
Ho voluto venire a dipingere e disegnare al cantiere di Porto Marghera perché mi avrebbe permesso di esplorare una parte del territorio veneziano a me ancora sconosciuta. Ormai sono parecchi anni che vivo e lavoro a Venezia, ma non avevo mai esplorato questo luogo direttamente nella mia pittura. Grazie al programma di residenza In-Edita in collaborazione con Venice Galleries’ View e Forte Marghera, sono riuscita ad ottenere un permesso da Fincantieri per poter lavorare dentro gli spazi del cantiere a Porto Marghera a partire da fine agosto 2020. All’inizio ero quasi sopraffatta da tutte le nuove impressioni. È stato un grande sollievo poter scambiare qualche riflessione e pensiero da distanza con degli amici curatori che mi hanno incoraggiata e sostenuta moltissimo. Se non fosse stata per una di loro, non so se avrei avuto il coraggio di chiedere di poter dipingere all’interno del cantiere. Invece credo sia poi stato molto apprezzato. I volumi degli edifici mi davano la sensazione di essere minuscola. Quasi come se fossimo in un gigantesco formicaio, ho però scoperto che c’erano anche parecchi luoghi piccoli e stretti, intimi, come dei ‘micromondi’. Questi spazi personalizzati sono diventati i miei soggetti preferiti durante il progetto. Prima nel disegno e poi anche nella pittura. Mi hanno attirato perché mi davano la sensazione di trovarmi a casa di qualcuno. Sembravano raccontare qualcosa della persona cui appartengono. La residenza al cantiere alla fine è stata una bellissima esperienza, soprattutto grazie allo scambio con i dipendenti. Mi hanno invitato a mangiare con loro in mensa ogni giorno, e sono sempre stati tanto generosi nei miei confronti cercando di facilitare il mio lavoro. Abbiamo costantemente tenuto un dialogo sia sul cantiere, la vita in generale sia sui miei disegni e quadri. Ero ‘a casa loro’, e ho apprezzato molto anche le critiche e i vari scherzi quando per esempio ho ‘sbagliato’ le proporzioni dei soggetti oppure dei nomi degli oggetti e delle macchine. Il fatto che l’italiano non sia la mia lingua materna ha fatto nascere delle situazioni buffe a causa della mia pronuncia sbagliata di parole come ‘ingegnere’, e mi hanno anche insegnato molte parole nuove come ‘gru’, ‘fune’ e ‘carroponte’. Per me è stato un privilegio imparare a conoscere il loro ambiente quotidiano, ovviamente ne conoscevano ogni dettaglio. Mi ripetevano spesso quanto stupiti fossero che avessi deciso di venire a dipingere lì, e spesso non mi hanno creduto quando ho gli detto che trovavo il loro cantiere ‘bello’.
Hai recentemente concluso una residenza alla Fincantieri a Porto Marghera, mi racconti com'è andata? Che luoghi ti sei trovata a dipingere?
Ho voluto venire a dipingere e disegnare al cantiere di Porto Marghera perché mi avrebbe permesso di esplorare una parte del territorio veneziano a me ancora sconosciuta. Ormai sono parecchi anni che vivo e lavoro a Venezia, ma non avevo mai esplorato questo luogo direttamente nella mia pittura. Grazie al programma di residenza In-Edita in collaborazione con Venice Galleries’ View e Forte Marghera, sono riuscita ad ottenere un permesso da Fincantieri per poter lavorare dentro gli spazi del cantiere a Porto Marghera a partire da fine agosto 2020. All’inizio ero quasi sopraffatta da tutte le nuove impressioni. È stato un grande sollievo poter scambiare qualche riflessione e pensiero da distanza con degli amici curatori che mi hanno incoraggiata e sostenuta moltissimo. Se non fosse stata per una di loro, non so se avrei avuto il coraggio di chiedere di poter dipingere all’interno del cantiere. Invece credo sia poi stato molto apprezzato. I volumi degli edifici mi davano la sensazione di essere minuscola. Quasi come se fossimo in un gigantesco formicaio, ho però scoperto che c’erano anche parecchi luoghi piccoli e stretti, intimi, come dei ‘micromondi’. Questi spazi personalizzati sono diventati i miei soggetti preferiti durante il progetto. Prima nel disegno e poi anche nella pittura. Mi hanno attirato perché mi davano la sensazione di trovarmi a casa di qualcuno. Sembravano raccontare qualcosa della persona cui appartengono. La residenza al cantiere alla fine è stata una bellissima esperienza, soprattutto grazie allo scambio con i dipendenti. Mi hanno invitato a mangiare con loro in mensa ogni giorno, e sono sempre stati tanto generosi nei miei confronti cercando di facilitare il mio lavoro. Abbiamo costantemente tenuto un dialogo sia sul cantiere, la vita in generale sia sui miei disegni e quadri. Ero ‘a casa loro’, e ho apprezzato molto anche le critiche e i vari scherzi quando per esempio ho ‘sbagliato’ le proporzioni dei soggetti oppure dei nomi degli oggetti e delle macchine. Il fatto che l’italiano non sia la mia lingua materna ha fatto nascere delle situazioni buffe a causa della mia pronuncia sbagliata di parole come ‘ingegnere’, e mi hanno anche insegnato molte parole nuove come ‘gru’, ‘fune’ e ‘carroponte’. Per me è stato un privilegio imparare a conoscere il loro ambiente quotidiano, ovviamente ne conoscevano ogni dettaglio. Mi ripetevano spesso quanto stupiti fossero che avessi deciso di venire a dipingere lì, e spesso non mi hanno creduto quando ho gli detto che trovavo il loro cantiere ‘bello’.
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