Chi è Cédric Dasesson e qual'è il percorso che ti ha portato a diventare fotografo?
La prima risposta che mi viene di getto è quella di descrivermi come un sognatore. Un ragazzo che aveva in mente di fare qualcosa per se stesso e, allo stesso tempo, poter esternare la passione per la fotografia e la sua terra natia. È stato un processo strano e contorto, in sintesi, è nato tutto durante il periodo di studi alla facoltà di Architettura di Cagliari. Lavoravo come modellatore 3d ed esecutore rendering in uno studio di Architettura, contemporaneamente mi appassionavo alla fotografia e durante la permanenza in questo studio cominciai a seguire anche gli scatti fotografici degli edifici che si realizzavano. Col tempo lo studio dell’architettura assunse diverse declinazioni, la mia attenzione si focalizzò infatti su tematiche a contorno di essa, sul contesto, sul paesaggio. Realizzai che fosse giunto il momento di creare un qualcosa che sentissi del tutto mio. Grazie anche a diverse persone che credettero in quel che stavo facendo mi dedicai interamente alla fotografia. Da autodidatta, con tanta forza di volontà mi misi a studiare e osservare il mondo della fotografia e i suoi protagonisti, con un occhio di riguardo sempre all'architettura, non solo intesa come edificio, ma anche come costruzione naturale. Mi concentrai sulle morfologie naturali e in particolare modo sulle infinite forme del mare e dell’elemento acqua. Da qui nasce un lungo percorso che mi portò ad una serie di progetti personali sul tema, nasce in questo periodo anche Instagram che per me è stata un’occasione di condivisione e di crescita molto importante
I tuoi scatti sono una narrazione della natura e di ciò che ti circonda, in particolare dell'acqua, come nasce questo legame con essa e cosa ti ha spinto ad immortalarla con assiduità?
Come ho anticipato, ho sempre legato lo studio materico e morfologico della natura al processo architettonico, inteso come studio dello spazio. Sono sempre stato affascinato dai cambiamenti del territorio, fin dalle piccole cose, come una roccia che viene a modificarsi nel tempo in seguito al continuo infrangersi dell'onda del mare. Il continuo dinamismo, la costanza del cambiamento e contemporaneamente rappresentare un mondo “altro”, liquido in senso fisico e figurativo ha totalmente catalizzato il mio interesse diventando la mia seconda casa.
Water, raccoglie una serie di tuoi scatti, me ne puoi parlare?
Water è la parola chiave per la lettura dell’elemento principe dei miei studi. Questo interesse ricade all’interno di un processo ormai decennale che racconta di luoghi visitati in Italia e all'estero, di atmosfere, di sensazioni che fuoriescono da ogni esperienza in acqua. Ho sempre voluto raccontare il mare oltre lo stereotipo del suo godimento estivo e attraverso diversi punti di vista. Mi affascinava la luce sott'acqua o le onde che scorrono sopra la testa, volevo esplorare a fondo tutte queste dinamiche e per farlo mi son attrezzato con gli strumenti più adatti. Dopo aver esplorato il punto di vista da sotto il livello del mare, Il passo successivo fu quello di capire cosa succede sopra il livello del mare, e il drone mi accompagna in questo processo di scoperta. In questo modo riesco ad ottenere una visione totale del mare, su diversi livelli.
Fracture e Sottobosco sono alcuni dei tuoi progetti realizzati in Sardegna dove vivi, qual'è il legame con la tua terra? come entra nei tuoi scatti?
É il luogo in cui sono nato e in cui vivo. Ci troviamo in un costante rapporto di amore e odio, ho cominciato a viaggiare sin da piccolo e per diverso tempo, proprio per cercare di fuggire dal luogo in cui vivevo, era un modo per trovare qualcosa di cui poter credere. La classica Sardegna che tutti acclamano per la sua bellezza appare come un luogo perfetto, ma la realtà in cui vivo è ben diversa, questa terra è soggetta a tante trasformazioni e mutamenti che è necessario analizzare. All’interno dello studio del territorio, cerco di trovare delle storie da raccontare, gli attori di quei processi di continua e inesorabile trasfomazione.
Fracture è un lavoro di documentazione fotografica che ragiona sulle conseguenze morfologiche delle intense attività estrattive del sottosuolo in una regione così complessa come il Sulcis Iglesiente. Dalla seconda metà dell'800 l'estrazione dei metalli fu una questione di necessità e sopravvivenza per chi viveva in quella zona, dava lavoro a tutto il territorio, non si pensava a quanto potesse essere pericoloso, fino al momento della crisi del settore e della dismissione di questi insediamenti che diventarono nel giro di poco tempo dei villaggi fantasma. Ciò che allo stato attuale m'interessa visualizzare è cosa sia rimasto di questo sfruttamento, partendo da quello che si vede in maniera superficiale percorrendo la strada principale, fino a individuare luoghi di forte impatto visivo, anche difficili da raggiungere, dove in seguito a smottamenti e subsidenze il paesaggio subisce un processo di cambiamento continuo a tratti violento. Si trasforma tutto in un nuovo habitat con nuove forme causate da crolli, difficili da controllare. Fracture è un progetto senza un termine ben definito, per ora sto documentando questi tagli, le cesure territoriali, le conseguenze a livello paesaggistico e sociale.
Sottobosco appartiene ad un'idea di scoprire cosa succede sotto delle realtà consolidate, scoprire alcuni compromessi spaziali, i lati nascosti delle città. L’attenzione si focalizza in un episodio specifico della città di Cagliari, la costruzione di una grande infrastruttura che permise di ottimizzare i collegamenti con il più grande centro urbano della Sardegna. E’ interessante vedere come le infrastrutture di questo tipo abbiano una doppia faccia, un lato A che valorizza il collegamento, il lato B che crea una barriera, che costruire una serie di spazi frammentati, dei residui urbani, in cerca di un nuovo ruolo attivo all’interno delle dinamiche urbane. Ed ecco che questo ruolo viene affidato alla natura che si ri appropria di questi tasselli abbandonati in ogni forma possibile, nascono appunto dei sottoboschi intesi come riserve di nuove possibilità e di alternative allo sviluppo della città.
Il tuo ultimo progetto è Where the sea run through, mi racconti in cosa consiste e come nasce?
In seguito ad una commissione che aveva come obiettivo la documentazione fotografica della zona costiera del sud Sardegna, a inizio stagione estiva 2020, ho intrapreso una indagine territoriale di carattere tassonomico. Ho costruito quindi una mappa fisica, visiva e concettuale di luoghi e di morfologie costiere, definendo degli itinerari, dei percorsi, dei punti di riferimento. Tra questi punti ho quindi identificato il tema degli ingressi a mare, cioè il momento di interfaccia e unione tra due percorsi d’acqua, il mare e il fiume. Finito il lavoro e rientrati in un periodo di semi lockdown per il Covid, mi dedicai a riesaminare i lavori passati e in particolare modo quello sulle coste. Una fotografia in particolare mi fece riflettere su quanto potesse essere vasto e pieno di storia il tratto di territorio che partiva dal mare fino ad arrivare alle foci dei canali del comune di Cagliari. Ho posto l’attenzione quindi sulla laguna di Santa Gilla, una delle più importanti aree umide d'Europa. Iniziai ad esplorare questi luoghi così comuni, così vicini in modo diverso, più profondo, interessandomi a tutti i fattori che contribuiscono a modificare quest’area e gli attori della sua permanenza e trasformazione. E’ interessante studiare i sistemi di appropriazione di questi spazi, i suoi presidi, la costante interfaccia con l’elemento acqua, elemento generatore dello spazio. Tra le trasformazioni che sto monitorando rientra sicuramente il processo di demolizione di un’architettura molto importante per la città, i vecchi Silos del porto, edificio di rilevanza storica che si appresta a cambiare, anche se in minima parte la visione di quel tratto di costa. Parallelamente lavoro con l’aiuto di pescatori e lavoratori della laguna che mi aiutano a scoprire il lato produttivo, culturale, sociale di questo spazio ibrido.
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