Daniele Costa, classe 1992, è artista visivo italiano la cui ricerca è focalizzata sul corpo attraverso le sulle immagini in movimento. Un approccio medico-scientifici e la conoscenza dell'individuo caratterizzano i suoi lavori, dove la narrazione si articola attraverso immagini statiche e in movimento che l'artista elabora e ripropone. Di seguito l'intervista con Daniele.
Chi è Daniele costa e
qual è il percorso che ti ha portato a diventare artista?
Vorrei rispondere come
si rispondeva nelle serie tv cult degli anni 2000. Daniele Costa è un
artista visivo che utilizza le immagini in movimento come mezzo di ricerca.
Vive e lavora tra Castelfranco Veneto e Venezia. Il mio percorso parte da studi
legati al cinema per poi proseguire con la magistrale in arti visive allo Iuav di
Venezia. Sempre rimasto coinvolto dalle immagini in movimento, con la
possibilità di gestire, raccogliere e consegnare tempo. Il percorso verso la
parte artistica è stato dettato dalla possibilità di generare in maniera fluida
immagini, nuove realtà e possibilità narrative.
La tua ricerca è un
indagine sull'introspezione personale attraverso il video, cosa la caratterizza
nasce e come prende forma?
Il percorso di ricerca
parte dal corpo con l’intento di traslare parentesi di vissuto in materia
filmica. Il corpo come sovrascrittura di identità, porzione di materia
complessa a cui si conferisce un’individualità, la singolarità umana e i
riflessi che essa proietta nella narrazione di una storia collettiva. In questo
percorso di indagine la ricerca ha sempre preso coscienza sull’altro anche in
una modalità quasi performativa, l’avvicinarmi mette in relazione il mio corpo
in fase di ripresa video al corpo dell’altro, in una logica di compenetrazione
e scambio. Per farlo, indago da una parte il funzionamento dell’umano
attraverso l’apprendimento diretto di nozioni medico scientifiche, affinché
svelino le sincronie e ritmicità da cui è regolato, le strutture e i
funzionamenti autonomi che ci sono tecnicamente sconosciuti pur appartenendoci.
Dall’altra, approfondisco la conoscenza di un individuo concentrandomi su
aspetti della sua vita che lo definiscono e lo situano nel proprio contesto,
con riferimento all’esigenza interpretativa che lo stesso attua nei confronti
di ciò che lo circonda.
What do you sea? è il progetto
sviluppato nell'archivio del Touring Club, mi racconti in cosa consiste il
progetto?
Il progetto è partito
dall’idea di collaborare con CampoBase in una logica di relazione, produzione e
creazione di un lavoro insieme. CampoBase è un collettivo curatoriale che
all’interno vede la partecipazione di diverse figure: lavorare a stretto
contatto con loro ha portato il progetto ad un livello di condivisione e
visione superiore. What do you sea? si innesta all’interno della piscina
Cozzi di Milano, che non è solo scenario, ma anche elemento centrale del
lavoro. A partire dalla piscina stessa, infatti, la ricerca portata avanti
propone un approccio a-sistematico ad un archivio, quello del Touring Club
Italiano, organizzato per geografie e temporalità precise. Questo viene
interrogato con uno sguardo trasversale che si mette sulle tracce di quello
che, in una rivista del Touring stesso, viene definito “il mare di chi non ha
il mare”. Nell’indagine condotta tra le architetture di piscina Cozzi e i fondi
del Touring è centrale l’esperienza della surroga dell’acqua, dell’acquatico e
di ciò che vi sta intorno: la socialità, l’ambiente, la città. La surroga è
intesa come strumento trasformativo di una modernità che, negli anni in cui è
costruita piscina Cozzi, non distanti da quelli in cui nasce il Touring stesso,
sta iniziando a cambiare radicalmente il volto del Paese. What do you sea?
ricostruisce i ricordi legati all'esperienza della surroga: sullo specchio
della Piscina Cozzi emergono immagini di gite al lago, di tuffi a secco,
alternati a riprese di colonie marine e di litorali affollati durante la
stagione estiva.
Dalla collaborazione con
i MiamiSafari è nato Megamore, come nascono questi tre capitoli e cosa li
caratterizza?
La collaborazione con i
Miamisafari (Alessia Prati e Matias Nativo) nasce con l’intento di creare delle
alleanze a livello artistico e relazionale. Collaborare con Matias e Alessia ha
aperto nuove realtà, conversazioni fluide e non autoriali, fatte di possibilità
e tracimazioni. Il tutto è nato da un invito di Beatrice Favaretto che mi ha
chiesto di partecipare a Manifesti Futuri per il brand di moda Marco
Rambaldi, con l’occasione ho invitato i ragazzi ed è iniziato il percorso, poi
portato ad una parte due in occasione di So Contemporary, programma
nell’ambito del festival Arcella bella di Padova grazie alla curatrice
Caterina Benvegnù. Infine, un terzo capitolo è stato sviluppato in occasione
del public program di Una Boccata d’Arte a Battaglia Terme a cura di
Stefano Volpato, Giovanni Paolin e Eleonora Reffo, presso l’ex stabilimento
termale Inps. L’opera è uno sguardo
queer sulla tradizione letteraria, un attraversamento che gioca con i topoi letterari
spostandoli al di là della norma. Quello che ci siamo proposti è di abitare la
Gerusalemme liberata (1581) di Torquato Tasso attraverso dei corpi e uno
sguardo in grado di decolonizzare, di scrivere una storia diversa, in cui gli
amanti e i vinti non si redimono tramite la conversione all’amore per l’altro o
al cristianesimo. L’opera tratta della
definizione di identità, di incontri e di alleanze, indagando il corpo come
sovrascrittura di gesti e fluidità.
Il tuo ultimo progetto
si intitola Trapezia, mi racconti in cosa consiste?
Trapezia è il progetto a
cui sto lavorando in questo momento, con il quale ho vinto il premio Lydia!
all’arte contemporanea emergente 2021. Verrà presentato al festival del
Lazzaretto a metà novembre prossimo. Sono molto legato a
questa opera, nata circa un anno fa quando ho conosciuto la Trape. Il progetto
infatti si basa sulla figura di Trapezia Stroppia, drag queen del Toilet Club di
Milano, performer, artista, “ragazza di Porta Venezia” e manifestazione altra
di Aurelio, laureato in comunicazione e didattica dell’arte all’Accademia di
Belle Arti di Brera. La Trape, nome d’arte di Aurelio e nickname di Trapezia
Stroppia, nel quadro pandemico odierno ha dato vita a una serie di video e
dirette sul suo profilo Instagram (https://www.instagram.com/la_trape/)
esibendosi all’interno della sua abitazione privata e lavorando al limite tra
la performance drag e la parodia dei tutorial. Così facendo, ha ridefinito non
solo i luoghi di espressione del suo artificio drag (dal club alla sua
abitazione privata), ma anche i ruoli e i rapporti relazionali in gioco in
un’economia postmediale. Il progetto parte dalla volontà di rappresentazione de
La Trape, un sé che si trasforma e si traspone in pluralità. In questo
manifestarsi, viene preso in esame il momento pandemico e la risposta alle
contingenze odierne che hanno escluso la presenza fisica dalle
possibilità delle pratiche performative: quando il palco diviene virtuale
la nostra presenza si fa sempre più intangibile fino a diventare “apparizione”.
Si ottiene così una forma digitale da indagare in contrapposizione alla persona
fisica, alle sue paure e angosce. Lo spazio delle riprese sarà il fulcro
centrale dell'opera video, la casa dove abita e vive la Trape diventa anche il
set per le sue dirette, lo scenario per i suoi racconti, dove vita personale
quotidiana di Aurelio si amalgama con la volontà di esibirsi in diretta de La
Trape. Il progetto è stato girato all’interno della sua stanza, che è
diventata sia set, palcoscenico, che spazio di possibilità nel quale
raccontarsi intimamente: un lavoro su due direzioni, il performare esterno e il
raccontarsi interno. Abbiamo girato per circa due mesi da maggio a luglio ed
ora il progetto è in fase di montaggio.
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