Gianpaolo Arena, classe 1975, è fotografo italiano la cui ricerca è focalizzata su tematiche ambientali e sociali. I suoi progetti trattano di architettura, paesaggio urbano e le relazioni sulle molteplici identità che appartengono e caratterizzano luoghi e persone. Dal 2013 curatore del progetto CALAMITA/À, una piattaforma di indagini e ricerche sui territori del Vajont; ha appena pubblicato A Folktale from Vietnam, un progetto caratterizzato da otto anni di ricerca e numerosi viaggi, fino al 26.03.2022 in mostre preso Spazio Choisi / Artphilein Foundation di Lugano. Di seguito l'intervista con Gianpaolo.
Chi è Gianpaolo Arena e qual'è il percorso che ti ha portato a diventare fotografo?
Un sognatore, errabondo e curioso. L'amore per l'arte contemporanea e la fotografia nasce durante gli studi di architettura. L'Università italiana negli anni della mia formazione ha avuto un ruolo importante nell'offrirmi la possibilità di allargare le mie conoscenze e nello stesso tempo di definire le basi della mia cultura visiva. Ricordo l'interesse e lo stupore che a partire da metà anni '90 hanno suscitato in me gli incontri con Bob Wilson, Michelangelo Antonioni, Gabriele Basilico, Vittorio Savi, Robert Rauschenberg, Ornette Coleman, Robert Ashley o La Societas Raffaello Sanzio. Allo stesso modo per me è stata importante la conoscenza del cinema sperimentale di Kenneth Anger, Harry Smith, Jonas Mekas e Jeff Keen. La vitalità di una certa controcultura mi ha attratto costantemente alimentando la mia immaginazione. Ho partecipato con entusiasmo alle edizioni dei festival Aterforum a Ferrara, ai concerti degli Autechre, di Aphex Twin e Panasonic al Link, a Netmage, Angelica a Bologna, o al Sonar a Barcellona. In assiduo pellegrinaggio ai negozi di dischi, per anni mi sono nutrito voracemente di ascolti, visioni, esperienze. Lo studio della fotografia italiana ed internazionale e la nascita di Landscape Stories mi hanno permesso di arricchire le mie conoscenze e di entrare in contatto con i miei riferimenti fotografici internazionali.
La tua ricerca ruota attorno a tematiche ambientali, documentarie e sociali, cosa la caratterizza e come scegli i progetti da affrontare?
I progetti nascono da una lettura, più o meno consapevole, di quanto avviene nel mondo che mi circonda. A volte l'interesse nasce a livello di comunità locale, a volte dall'incontro con tematiche e criticità globalizzate. La curiosità può scaturire da un'esperienza diretta, da una lettura o da un articolo in cronaca, poi sedimenta nel tempo e a volte sento la necessità di approfondire. Dal mio punto di vista non se ne parla ancora abbastanza e non sempre correttamente ma la crisi climatica sarà uno dei temi principali per i prossimi decenni a venire.
Mi parli del progetto CALAMITA/À?
La notte del 9 ottobre 1963, 270 milioni di metri cubi di rocce si staccano dalle pendici del Monte Toc. La frana cade nel bacino idrico della diga del Vajont, causando un’enorme ondata di 60 milioni di metri cubi d’acqua, il cui muro genera una pressione più potente della bomba di Hiroshima. La diga, completata nel 1959, la più grande del mondo in quel momento, non subisce nessun danno rilevante. L’inondazione distrugge numerosi paesi e uccide quasi 2000 persone. Secondo l’Unesco, è una delle più gravi catastrofi ambientali create dall’uomo. Il disastro non è dovuto alla sua natura maligna ma piuttosto alla sua negligenza e sete di potere. Dal 1963 a oggi, sono passati molti anni, si sono svolti numerosi processi e sono state avviate ricostruzioni urbanistiche controverse, ma la ferita è ancora dolente. Le analogie con il presente sono evidenti e si ripetono nello sfruttamento energetico del territorio, negli eterni conflitti di interessi, nella corruzione degli apparati di controllo, nella privatizzazione dei profitti e nella socializzazione delle perdite. Il nefasto caso del Vajont appare a tutti gli effetti come una delle vicende cardine del ‘900 italiano. In questo contesto, il progetto CALAMITA/À nasce dall’urgenza di investigare il paesaggio sociale e culturale del Vajont. Con Marina Caneve, curatrice del progetto insieme a me, abbiamo investigato la mutazione del territorio e la percezione collettiva della tragedia. Partendo dal tema della storia del Vajont, localizzato e nello stesso tempo universale, la ricerca si è estesa ai campi della geopolitica internazionale, delle trasformazioni territoriali e urbanistiche, dell’ecologia. CALAMITA/À nasce come un progetto in divenire e il nostro desiderio è che lo rimanga ancora, radicando le proprie radici sul territorio del Vajont ma aprendo le ali verso altri porti. Più che un luogo un'idea. In questi anni, abbiamo costruito un vero e proprio immaginario della catastrofe, dei grandi cambiamenti epocali, della relazione tra uomo, natura e potere. Tutte queste tematiche, che sono parte della storia del Vajont, riprendono nuovamente vita altrove. La pubblicazione del libro The Walking Mountain (2016) è stato un tentativo di costruire una visione condivisa. I prossimi passi in programma saranno quelli di realizzare una serie di riflessioni sui nostri modelli di vita contemporanei.
A folktale from Vietnam è il tuo ultimo progetto, oggi un libro e una mostra; mi racconti come nasce e come prende forma?
“A FOLKTALE FROM VIETNAM: Speeding Motorcycles and Roasted Lemongrass” è il risultato di 8 anni di ricerca e la produzione di una serie di fotografie realizzate in Vietnam nel 2013, 2015 e 2018. Sia le fotografie che i saggi esaminano il complesso legame tra paesaggio e civilizzazione. Questo progetto cattura frammenti, rituali e aspetti diversi della società vietnamita contemporanea. Il mio sguardo si sofferma in particolare sulle grandi città vietnamite, Hanoi e Ho Chi Minh City, tra memoria e decadenza, cultura e capitalismo, folklore e propaganda. La grafica e il concept del libro sono a cura di Chiara Capodici. La pubblicazione, nella sua versione finale, è il risultato di diverse fasi e molteplici revisioni. Il ruolo di Chiara è stato davvero importante nel dare valore alla ricerca e nel restituire i delicati umori e le impalpabili atmosfere del paesaggio vietnamita. La storia si è rafforzata e ha preso vigore quando ci è stato evidente che il tema centrale del libro avrebbe dovuto essere quello dello sviluppo urbano, della sostenibilità ambientale e della continua trasformazione della società vietnamita. Una popolazione giovane e rampante, con uno sviluppo economico aggressivo, in crescente aumento e non esente da contraddizioni macroscopiche, fragilità diffuse e lacerazioni interne. La scelta dei temi e degli autori dei testi è andata quindi a supportare questa linea editoriale. La mia introduzione è seguita da alcuni brevi saggi che danno importanza e aggiungono ulteriori approfondimenti sul tema delle mutazioni delle metropoli asiatiche e sono a cura di Fabio Severo (la fotografia), di Simona Galateo (l'architettura), di Francesco Bergamo (il paesaggio sonoro). Il libro è stato pubblicato dall'editore tedesco The Velvet Cell, con base a Berlino e curato dal fotografo irlandese Éanna de Fréine, che nel tempo ha pubblicato una settantina di pubblicazioni e dato valore a ricerche analoghe di autori internazionali come Peter Bialobrzeski, Alejandro Cartagena, Hans-Christian Schink, Toshio Shibata, Greg Girard e Alexander Gronsky. Il progetto sarà in mostra in Svizzera, a Lugano, allo Spazio Choisi, dal 29 gennaio al 26 marzo 2022. Ho raccolto positivamente il gentile invito di Giulia Brivio e di Caterina De Pietri, direttrice di Artphilein Editions. Uno spazio istituzionale non profit, un editore, una galleria e un bookshop specializzati nella promozione e nella valorizzazione dell'arte contemporanea attraverso presentazioni, residenze, mostre. Un luogo aperto, ricettivo e attento a temi come le conseguenze dell'uomo sull'ambiente, l'analisi critica delle quotidiane trasformazioni territoriali, i nuovi scenari geopolitici post-coloniali.
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