Leonardo Magrelli è artista italiano classe 1989 la cui ricerca è caratterizzata dall'utilizzo della fotografia come mezzo, un approccio ibrido che caratterizza l'estetica delle sue immagini. Fa parte del collettivo Vaste Programme la cui pratica indaga la post-fotografia e i nuovi media, utilizzando e combinando immagini ritrovate a cui vengono conferiti nuovi significati. Ha recentemente esposto il progetto on going The Plant allo spazio Jesi di Torino. Di seguito l'intervista con Leonardo.
Chi è Leonardo Magrelli e qual'è il percorso che ti ha portato a diventare fotografo?
Sono nato a Roma, e crescendo è sempre stato chiaro, almeno a me, che avrei dovuto fare qualcosa legato alla visualità: il problema era cosa! Non ho mai dipinto ma ho sempre disegnato, ed ero convinto di dover cercare un ambito in cui mantenere almeno questa mia capacità (e invece!). Mi sono iscritto alla facoltà di disegno industriale per il rotto della cuffia e con l’idea che lì avrei potuto confrontarmi con diverse possibilità professionali: un po’ di architettura, un po’ di design, illustrazione, grafica. Ho iniziato in quel periodo a collaborare con Riccardo Falcinelli, che era un mio insegnante, e sono rimasto nel suo studio per diversi anni. È stata una delle esperienze più formative di tutta la mia crescita, e, dei tanti utili consigli che Riccardo mi ha dato, forse il migliore è stato quello di non proseguire il mio percorso con un master, ma di studiare Storia dell’Arte, per allargare i mie orizzonti culturali invece di concentrarli su un unico argomento specifico. Così mi sono iscritto nuovamente a una triennale e sono tornato all’università. È stato un periodo molto interessante, in cui, dopo essere passato dal voler fare il grafico a voler fare l’illustratore, sono finalmente approdato alla fotografia.
Mi parli della tua ricerca e del tuo approccio alla fotografia?
Come risulterà ormai chiaro, io dunque non vengo da studi classici di fotografia né ho fatto scuole fotografiche. Credo che chi “cresce” in camera oscura, sviluppi un rapporto particolare con le immagini fotografiche, perché la fase di sviluppo è un processo evidentemente molto suggestivo, un momento quasi sacro in cui si assiste alla nascita dell’immagine dal bagno chimico. Come dicevo, io invece sono cresciuto facendo copertine di libri per grandi editori, e questo significa fare ogni giorno operazioni quali navigare su banche di immagini a pagamento e trovare la fotografia adatta a veicolare il senso di un libro: per esempio può capitare di dover prendere la foto di una donna, scontornarla, metterla davanti ad una di un paesaggio, aggiungere un cielo diverso, lasciare spazio per il testo, virare i colori e uniformare l’immagine finale. Un approccio che rende evidente quanto il concetto di verità fotografica sia labile e quanto le immagini possano mentire. Questi due assunti credo abbiano influenzato profondamente la mia pratica artistica successiva. Quando mi sono avvicinato alla fotografia, sono rimasto da subito affascinato in particolar modo da quegli autori che hanno lavorato sull’ambiguità del mezzo fotografico, sulla natura fittizia delle immagini e sul rapporto tra queste e il testo, ed ho scoperto, con mia particolare sorpresa, che di esempi simili se ne trovano sin dalla nascita del mezzo fotografico.
Come nasce il tuo libro West of Here e cosa racconta?
Per lungo tempo ho collezionato, per puro piacere personale, immagini provenienti da innumerevoli blog su internet, in cui giocatori di tutto il mondo caricano scatti e screenshot provenienti dal videogame Grand Theft Auto V. Ho passato ore da ragazzino a giocare alle versioni precedenti di questo videogame, ma non ho mai avuto modo di provare quest’ultima e mi era sorta la curiosità di vedere come fosse. Dopo un po’ di ricerche su in internet, la cosa che mi ha colpito di più, oltre all’incredibile potenzialità del videogioco, è stata proprio l’enorme quantità di testimonianze visive, registrate dagli utenti, di questo luogo inesistente. Quando ero più piccolo non mi sarebbe mai passato per la testa di “fotografare” ciò che accadeva in un videogame. Oggi invece si trovano migliaia di queste immagini in rete. Il motivo, a mio avviso, è che se abbiamo la possibilità, in modo semplice, di registrare visivamente qualcosa, finiremo sempre per farlo. Il passaggio cruciale poi è stato quando ho provato, quasi per caso, a portare in bianco e nero queste immagini estremamente sature e colorate. La loro evidenza virtuale e digitale scompariva, sfumava ulteriormente la differenza tra vero e falso. Così è nato il libro, pensato anch’esso, con il suo design volutamente un po’ vecchiotto, per nascondere la vera natura delle immagini. Lavorare con materiale di riuso significava evidenziare l’incontrollata proliferazione di immagini in ogni ambito, e al contempo permetteva di ricostruire una narrazione unica, partendo da una sorta di “memoria collettiva” di un posto che non esiste. Inoltre, alla base del lavoro c’era la volontà di interrogarsi sul valore che hanno delle tracce fisiche di una realtà intangibile, di esplorare le possibilità e le implicazioni di fotografare un luogo virtuale e di mettere in crisi i concetti di indessicalità e di riconoscimento nella fotografia, e quindi della sua veridicità.
Fai parte del collettivo Vaste Programme, mi parli di questo progetto, di cosa lo contraddistingue e caratterizza?
Il collettivo è nato nel 2107 dall’incontro con Giulia Vigna, appena tornata a Roma da Londra e in cerca di qualcuno con cui sviluppare un’idea per un progetto che aveva in mente e che poi sarebbe diventato il primo lavoro fatto insieme. Poco dopo aver iniziato a collaborare, si è aggiunto Alessandro Tini, inizialmente in veste più curatoriale. In breve però ogni distinzione è saltata e abbiamo deciso di continuare a lavorare come collettivo, concentrandoci su approcci multimediali, che avessero però sempre l’immagine al centro dei propri ragionamenti. È difficile dire cosa ci caratterizza, forse veramente solo questo continuo ritorno e rimando al mondo dell’immagine, ed è senz’altro più facile dire cosa distingue lo pratica artistica collettiva da quella personale: dovendo sempre passare attraverso il setaccio della verbalizzazione e del confronto (ossia di una discussione plurale in cui si portano le proprie idee e le si devono motivare e saper spiegare), se da un lato si perde la pura istintualità, l’intuizione a tratti inspiegabile dietro un’idea, la gestualità o l’occhio puramente personale, dall’altro si guadagna nel riuscire ad arrivare a soluzioni alle quali sarebbe impossibile arrivare da soli. La creazione collettiva infatti è un processo stupefacente, in cui le proprie visioni sfumano e une in quelle dell’altro, spesso senza la possibilità di ripercorrere i processi creativi a ritroso.
The Plant è la tua ultima persona presso lo spazio Jest a Torino; in cosa consiste la mostra e qual'è la narrazione fotografica presentata?
The Plant è un progetto ancora in espansione, che raccoglie fotografie realizzate negli ultimi tre anni nei pressi di diverse centrali di produzione di energia, per creare un'immagine composita di un luogo potenziale e non specificato. Il lavoro fa riferimento all'immaginario cinematografico post-atomico e alle fotografie documentarie degli esperimenti nucleari, mutuandone a tratti i linguaggi visivi. Devo dire che rispetto ai precedenti, è un lavoro più istintivo e nei cui scatti ritrovo delle questioni puramente fotografiche, che per fortuna impediscono alle immagini di “risolversi” – almeno a mio avviso – e che dunque mi invogliano a continuare ad osservarle. Il progetto di mostra da Jest era sviluppato in collaborazione con CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia e si inseriva nelle attività del programma europeo FUTURES Photography 2021. Per me era importante che dalla mostra non solo emergesse la natura ancora parziale e in-progress del lavoro, ma, avendo a disposizione dei fondi pubblici, che tornasse anche qualcosa in mano agli spettatori. Abbiamo deciso allora di stampare una serie di poster fronte-retro con diverse immagini, di piegarli in quattro e di assemblarli tre alla volta, così da ottenere un libro di 12 pagine. La cosa interessante è che ognuno di questi risultava diverso dall’altro, e al contempo, una volte piegate e inserite nel flusso delle pagine, le fotografie perdono la loro interezza e fissità, per approdare a una dimensione aperta, frammentata e combinatoria, che ben rispecchia la natura ancora in via di sviluppo del lavoro. Abbiamo poi inondato lo spazio riempiendolo di questa miriade di pubblicazioni, che lo spettatore era invitato a prendere e a portare via con sé, svuotando gradualmente lo spazio espositivo del suo contenuto, come forma di restituzione al pubblico.
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