Massimiliano Camellini, Venezia 1964, è fotografo italiano la cui ricerca si focalizza sull'essenza dei luoghi, attraverso i dettagli e le tracce di chi li vive. Tra i suoi ultimi progetti 6 p.m. The working time is over, al di là dell'acqua e a Ribbon and a Player che coniugano mito, storia, letteratura e luoghi; nelle pubblicazioni dei progetti, le fotografie scattate sono associate a saggi e testi di economia, antropologia e letteratura. Di seguito l'intervista con Massimiliano.
Chi è Massimiliano Camellini e qual’è il percorso che ti ha portato a diventare fotografo?
Sono nato a Venezia nel 1964, figlio di Giorgio, fotografo amatore evoluto dell’epoca, che frequentò il mitico circolo La Gondola di Venezia e fu compagno di progetti con Gianni Berengo Gardin, Fulvio Roiter, Paolo Monti ed altri importanti autori; fui influenzato sicuramente da mio padre che fin da bambino mi trasmise l’amore per la fotografa e per la creazione dell’immagine, la ricerca della composizione, questo all’inizio. Da ragazzino poi mi insegnò il trattamento dei materiali e la stampa analogica, forse ancora prima dello scatto e dell’uso della macchina fotografica. La svolta fotografica devo però riconoscere che è stata verso i 25/26 anni di età quando ripresi a frequentare importanti fotografi emiliani, che mi hanno stimolato verso un percorso di ricerca e di costruzione di progetti complessi. Da allora ho lavorato sempre ideando e sviluppando progetti che sono sempre stati ispirati al mito, alla letteratura, alla storia.
La tua ricerca è contraddistinta dalla relazione tra il luogo e l’oggetto, mi parli dì come nascono i tuoi scatti?
Si, questo soprattutto dal 2010 circa ad oggi, i miei progetti non hanno più come oggetto la figura umana, anche se vista in chiave metafisica come i primi lavori, ma si sono orientati su luoghi specifici cercando la narrazione della loro storia e/o della loro trasformazione nel tempo attraverso i dettagli e gli oggetti che vi si trovano o li arredano, in definitiva le cose materiali vengono fotografate per descrivere ed esprimere l’emotività dei luoghi; diciamo che, rispetto alla cosiddetta “aftermath photography” che ritrae semplicemente il lascito degli eventi, queste ricerche, come ha ricordato Lorand Hegyi, un grande critico d’arte europeo che ha curato un mio progetto, sono caratterizzate dalla “lebensvergangenheit”, termine coniato da Georg Simmel, che significa in modo sintetico il “vivere nel passato” come se il passato fosse attuale, quindi riscoprire l’identità ed il significato emotivo e spirituale dei luoghi …
Nel tuo percorso fotografico hai realizzato numerosi volumi che raccolgono i vari lavori; se dovessi sceglierne uno, quale sarebbe e perché?
Sono orgoglioso del fatto che i miei libri che monograficamente raccontano i miei progetti sono stati corredati da un cd. “apparato critico” di varie estrazioni, volutamente, per dare una lettura non solo artistica ma anche letteraria e antropologica; un libro che raccoglie molti contributi sfaccettati ed a cui sono molto affezionato, edito da Five Continents, è “Il laboratorio dell’ossessione, dalla scienza al sogno”, dedicato al mito della creazione dell’uomo, e che annovera contributi di Massimo Centini, antropologo e massimo studioso del mito della creazione, e di un critico cinematografico come Jonny Costantino; se devo però scegliere un volume sceglierei “ore 18.00, l’orario è finito”, in cui è pubblicato anche un saggio di un economista, Giuseppe Croce, che rappresenta una nuova frontiera della lettura dell’immagine, nel mondo attuale sempre più interprete di fenomeni anche economici e sociali.
Mi racconti come nasce e come prende forma il corpo dì scatti “Al dì la dell’acqua - Lot Do Blo”, un viaggio fotografico all’interno delle navi cargo?
Al di là dell’acqua è il progetto che ha “viaggiato” di più, per usare un gioco di parole, visto che è stato sviluppato all’interno delle navi cargo, ma anche perché è stato esposto in diversi continenti e su diversi mari ed oceani, e speriamo altri in futuro, come simbolo del viaggio dell’uomo verso il futuro e nello stesso tempo come testimonianza del proprio passato e delle proprie emozioni. Lòt bò dlo è una parola creola che sta proprio a significare “dall’altra parte dell’acqua” come emozione dell’individuo che nello stesso istante ha paura del futuro che lo aspetta nel viaggio verso l’infinito e l’ignoto ma contemporaneamente ha la sicurezza del proprio presente, come i marinai che vivono nella loro “casa” viaggiante catalogano ed arredano i loro spazi con oggetti che ricordano sia la loro casa terrestre che la navigazione, a fondere i due contesti.
Presso lo spazio La toletta la tua personale “a ribbon and a prayer” mi parli dì questi scatti?
E’ un progetto ancora in divenire, non completato, ma mi sta affascinando molto perché mette a confronto il passato di luoghi “secolari” trasformati nel presente in luoghi di culto, attraversando tutte le religioni del pianeta; due immagini sono messe a confronto tra loro, una del passato dell’esterno del luogo “virata” con il colore guida della religione interessata, e una dell’interno “trasformato” in luogo di culto, con i suoi oggetti e simboli che “parlano” …. Parlano di una fede che è più forte del declino delle strutture dell’uomo e spesso causato dall’uomo stesso, parlano di un nastro colorato e che arreda e trasforma (ribbon) e una preghiera (prayer) che da soli sono capaci di trasformare, di creare nuove aggregazioni e comunità. Un progetto che ripercorre sempre il solco della “Lebensvergangenheit” di cui scrisse Georg Simmel: i luoghi e gli oggetti hanno molto da raccontare, in particolare quando sono abitati dagli dei …
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