Silvia Bigi è cresciuta tra pinete e mosaici bizantini. Da piccola costruiva città immaginarie e diceva sempre la verità. Da grande ha continuato a fare le stesse cose. È diventata artista perché conformità e regole non sono mai state il suo forte, e crede che l'arte sia il più grande spazio di libertà che ci è concesso.
La tua ricerca ruota attorno al tema della memoria, l’identità e la tradizione, come viene rappresentata nelle tue opere e come nasce tale ricerca?
Uno dei principali temi che indago è la storia come costruzione sociale, tutto ciò che viene culturalmente definito e di conseguenza soggetto a mutazioni e alterazioni nel tempo. Questo punto di partenza dà il via, nella mia ricerca, alla produzione di quelle che chiamo "contro-narrazioni" o "anti-memorie", ovvero tentativi di ribellione allo status quo che suggeriscono anche visioni alternative dei fatti: possono essere fotografie, video, disegni, installazioni. Ogni linguaggio concorre a esprimere il mio bisogno di decostruire gli oggetti e le storie a cui ci affidiamo senza farci troppe domande. La mia pratica, si potrebbe dire, rappresenta un vero e proprio atto di resistenza alle credenze, e in particolare a quella capacità che ha la nostra società di demistificare tutto, obbligandoci ad accontentarci di risposte che qualcuno ha già dato per noi. Faccio qualche esempio: ne L'albero del latte 2017 parto da un codice di leggi e consuetudini rinvenuto per caso nei paesi balcanici durante un periodo di residenza. Le leggi, di stampo fortemente patriarcale, mi spingono alla produzione e messa in scena di un altro codice: tredici articoli, scritti e tradotti in dialetto romagnolo, ricamati a mano con filo bianco su un'antica tela bianca. L'opera nasce dal bisogno di innestare una possibilità nelle trame del tempo: ho immaginato una possibile trasmissione segreta, di madre in figlia, in un mondo e un tempo che lo proibivano. Questa invenzione poetica, di cui ho inscenato e documentato un ritrovamento, si conclude con una performance sonora dove la poetessa Laura Turci recita le parole ricamate ad alta voce. Lascio il pubblico con questa domanda: il nuovo codice, pur essendo inventato, avrebbe potuto esistere? Quanti documenti, testimonianze e storie se ritrovate, ridefinirebbero i nostri paradigmi nonché la nostra stessa identità? L’arte permette di costruire scenari alternativi, deviazioni e mondi paralleli. Ancora ne parlo in From dust you came (and to dust you shall return) 2018-2020, dove trasformo in polvere le fotografie dei miei album di famiglia fino a raggiungere un mutamento di stato: le raccolgo e conservo come semplici colori, simili a pigmenti, in piccole ampolle di vetro. In fondo, l'uomo ha sempre cercato di lasciare una traccia di sé, ma oggi siamo ossessionati dai ricordi, dalle storie che ci riguardano, dagli oggetti. E soprattutto abbiamo a cuore solo ciò che ci sta vicino, la nostra famiglia immediata, perdendo spesso la misura del nostro esserci relazionale più ampio, tra soggetti umani e non-umani.
Mi parli della serie urtümliches Bild? In cosa consiste questo lavoro e come prende forma?
La serie nasce come rifiuto del flusso di immagini che imperversava le nostre esistenze durante i primi mesi di pandemia. Le immagini di città svuotate, degli ospedali, della polizia, delle morti, saturavano i nostri occhi e esigevano di risolvere con la loro presenza tutto il senso di ciò che stava accadendo. Sentivo che irrimediabilmente quel mondo non solo stava sostituendo la nostra esperienza reale delle cose, ma stava anche impedendo uno spazio di comprensione autonomo. Ho deciso così di attingere ai sogni notturni, visti come veri e propri sismografi in grado di captare le tracce di lievi e profonde trasformazioni collettive. In molte culture i sogni rappresentano un'altra realtà, non meno importante di quella diurna. Per Jung i sogni sono portatori di archetipi, immagini primordiali condivise dalle origini dell’umanità. Seguendo queste intuizioni, ho domandato a trentanove persone da diverse parti del Pianeta di raccontarmi un sogno avuto durante il primo lockdown, mentre stava affrontando isolamento e la paura, per poi processarli attraverso un algoritmo di apprendimento automatico, addestrato a trasformare input testuali in immagini. Si potrebbe dire che la forma finale del lavoro sia un paradosso: l’algoritmo che ho utilizzato è stato progettato per ottenere un risultato realistico e verosimile, ma facendo i conti con un contenuto illogico come quello onirico, finisce per fallire il suo compito, producendo immagini astratte, imperfette, prive di regole figurative. Affidandomi alle macchine e rinegoziando il mio stesso ruolo di artista, ho così dato origine ad una nuova iconografia.
Tra i tuoi ultimi lavori c’è Camille, mi racconti il progetto?
Camille nasce nel 2019 durante il progetto Montagna Sociale Contemporanea, in Valle D’Aosta. Stavo studiando i processi per stregoneria e le morti avvenute tra quelle montagne, documentando le mie ricerche attraverso una serie di still life, quando a un certo punto ho capito che non avrei potuto utilizzare le immagini per raccontare la storia di queste donne. Molte di loro erano erboriste, levatrici, guaritrici. Le immagini, così come le consideriamo, non devono necessariamente essere lo strumento primario di conoscenza della realtà. E così, ho scelto di realizzare un profumo. In tutto e per tutto simile a una fragranza commerciale (sto creando proprio ora un’edizione limitata realizzata in collaborazione con Firmenich, una delle più importanti aziende mondiali nel campo della profumeria). Camille sfrutta l’invisibilità di uno di uno dei sensi più antichi e insieme i differenti gradi di volatilità delle sue note olfattive per raccontare una contro-storia che non ha bisogno di occhi per essere ascoltata.
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