lunedì 24 luglio 2023

Interview with Fosbury Architecture

Fosbury Architecure è un collettivo di ricerca e progettazione composto da cinque giovani architetti italiani, il cui nome si ispira celebre Fosbury flop, del celebre atleta Dick Fosbury, che consiste nel superare l’asticella di schiena nel salto in alto, richiama l'approccio del collettivo chiamato a curare il Padiglione Italia alla 18esima edizione della Biennale di Architettura di VeneziaSpaziale. Ognuno appartiene agli altri il tema proposto all'interno del padiglione che si sviluppa come un laboratorio in dialogo tra i differenti attori chiamati a prenderne parte. Di seguito l'intervista con il collettivo. 

Come nasce Fosbury Architecture e da chi è composto?
Fosbury Architecture nasce come pratica collettiva nel 2013 a Milano, in un momento in cui tutti stavamo per affacciarci sul mondo del lavoro ed eravamo particolarmente scettici sull’orizzonte di tirocini sottopagati e orari di lavoro estenuanti che ci attendeva. Abbiamo sempre inteso Fosbury Architecture come una piattaforma per fare progetti e ricerche insieme, al di là dei percorsi individuali dei singoli membri. Con lo stesso spirito abbiamo affrontato anche la definizione della proposta curatoriale per il Padiglione Italia alla Biennale Architettura 2023 su invito della Direzione Generale Creatività Contemporanea. La formazione è cambiata nel tempo ed oggi ne fanno parte Giacomo Ardesio, Alessandro Bonizzoni, Nicola Campri, Veronica Caprino e Claudia Mainardi, con la collaborazione di Lorenzo Cellini e Valeria Cesti. 

Siete i curatori del Padiglione Italia alla Biennale d’architettura, come nasce il progetto “Spaziale. Ognuno appartiene agli altri”?
Il progetto nasce dalla volontà di dare voce ad una generazione di progettisti, in larga parte nostri coetanei, la cui pratica si situa lungo il perimetro di ciò che è considerato architettura. Questo non perché siamo contro al costruire, ma perché crediamo sia importante mostrare che l’architettura possa fare anche altro, specialmente in una congiuntura difficile come quella che stiamo vivendo. In questo senso, piuttosto che mostrare lavori già completati, abbiamo invitato i partecipanti a realizzare, con una serie di attori locali, progetti site-specific sparsi per tutta la penisola italiana, andando idealmente ad ampliare il Padiglione Italia oltre alle Tese delle Vergini. L’intento ultimo è stato dunque di mostrare pratiche di architettura alternative, legittimandole in una cornice istituzionale come La Biennale di Venezia.

All’interno del padiglione Italia sono presentati in 9 progetti frutto del lavoro site-specific realizzato nei mesi precedenti alla manifestazione. Come sono nati e com’è avvenuta la ricerca da parte vostra?
Il punto di partenza già durante la fase di concorso ad inviti è stata la definizione di un formato di mostra che mettesse in luce la possibilità di lavorare in modo collettivo e collaborativo. Abbiamo innanzi tutto identificato i progettisti in base alle ricerche e alla pratica che conducono, così come advisors provenienti da altri campi creativi quali artisti e performer, esperti di alimentazione e intelligenza artificiale, registi e scrittori, con cui potessero collaborare. Ciascun gruppo transdisciplinare è stato invitato a confrontarsi con un tema, interpretato in maniera più o meno libera, attraverso un progetto pensato per siti rappresentativi di scenari di fragilità e trasformazione per il paese.
Il rapporto con i luoghi è scaturito naturalmente: in alcuni casi –come per Post-Disaster Rooftops a Taranto o Orizzontale con l’associazione La Rivoluzione delle Seppie a Belmonte Calabro– si tratta di esperienze pluriennali di successo; in altri casi, il team di lavoro è stato costruito ad-hoc. Tuttavia, al fine di radicare i progetti nei territori ed immaginarne la realizzazione anche oltre la durata semestrale della Biennale Architettura 2023, ciascun gruppo ha collaborato con degli incubatori: interlocutori locali, tra cui musei, associazioni e festival culturali.

Qual’è la vostra idea di architettura? E la visione che attraverso il padiglione volete proporre?
Nonostante siamo cresciuti con il mito dell’architetto-eroe, crediamo che il progettista debba essere piuttosto un mediatore creativo tra diverse forme di conoscenza, in grado di tradurre in spazio, tra pragmatismo ed emozione, istanze spesso divergenti.
In un contesto di crisi ambientale –con cui ci dovremo sempre più confrontare in campo professionale e le cui avvisaglie si sono già manifestate nella quotidianità– gli architetti, o per meglio dire, le pratiche spaziali, sono tra le poche figure in grado di dare forma a nuove politiche pubbliche e modi alternativi di abitare. Per questa ragione, piuttosto che celebrare il gesto autoriale, crediamo nella necessità di una pratica consapevole e di un’attitudine empatica ed aperta al confronto con altri saperi: perché crediamo sia solo quando uno appartiene agli altri che è possibile rispondere alle crescenti complessità.





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